giovedì 25 ottobre 2012

Le Guerre della Fame


Da “The Oil Crash”. Traduzione di Massimiliano Rupalti


Link all'immagine. Il cartello dice: “Non possiamo dar da mangiare ai poveri ma possiamo finanziare una guerra?”

Di Antonio Turiel

Cari lettori,
C'è una paura che mi tormenta da qualche mese. Be', più che paura è una certezza. La certezza che stiamo vivendo gli ultimi mesi prima di uno scoppio su scala planetaria, nel quale le varie contraddizioni del nostro sistema economico e di sfruttamento delle risorse non potranno essere aggirate o evitate ulteriormente e che esploderanno in tutta la loro intensità, facendo sì che la discesa del lato destro della curva di Hubbert sia più brusco di quanto non ci eravamo prefigurati inizialmente. Varie crisi si stanno sviluppando proprio ora, ma la nostra attenzione è ferma alla crisi economica che ognuno di noi vive nel proprio paese (senza vedere che tutti i paesi sono in una situazione simile), mentre i nostri mezzi di comunicazione hanno occhi praticamente solo per la crisi finanziaria (visto che questa è quella che interessa al grande capitale, il quale è, in ultima analisi, colui che possiede e finanzia questi media). E tutte le crisi che si stanno sviluppando passano totalmente inosservate, quando in realtà sono più collegate di quanto pensiamo alle nostre preoccupazioni più prossime. Di tutte queste altre crisi ignorate, oggi ne prenderò tre che formano una filo logico dalle implicazioni minacciose per il nostro futuro: la crisi energetica, la crisi climatica (che incide nel problema dell'acqua) e la crisi alimentare. 

Non parlerò qui un'altra volta della crisi energetica, perlomeno non di per sé stessa. Praticamente tutto il blog è dedicato a questo tema ed i lettori abituali conoscono già gli aspetti fondamentali della stessa (e per i nuovi lettori raccomando la lettura del prontuario sul picco del petrolio ed il post "Messaggio in Bottiglia”). Da queste parti sappiamo già che, a causa della connessione fra economia ed energia e al fatto che siamo sull'uscio di un declino energetico duro, questa crisi non finirà mai

Altra crisi di cui ho parlato di tanto in tanto è quella ambientale e in particolare gli aspetti legati al cambiamento climatico. Non è il tema di questo blog (se volete un'informazione ampia e rigorosa su questo tema, il mio personale blog di riferimento è Usted no se lo cree). Ci sono sempre più indizi che gli effetti dei cambiamento climatici su scala globale associati all'attività umana si stiano amplificando ed accelerando. In questo senso quest'estate è stato prodiga di tali effetti. All'inizio di luglio abbiamo appreso che la calotta di superficie del ghiaccio di praticamente tutta la Groenlandia si era fusa in circa 4 giorni (vedete le mappe della superficie colpita dalla fusione superficiale dai giorni 8-12 luglio):


Numerosi media hanno dato questa notizia, anche se gli errori di comunicazioni sono stati abbondanti. Così, in alcuni media si è detto che tutta la Groenlandia si era fusa (cosa assurda, perché il livello dell'acqua del mare sarebbe salito immediatamente di 7 metri) e in altri, più controllati, che questa calotta fusa fosse finita tutta in mare (in realtà, la maggior parte si è ricongelata sul posto). Questo ha fomentato alcuni elementi del negazionismo climatico a dispiegare la propria artiglieria e, non potendo negare i dati (vengono direttamente dalle osservazioni della NASA), hanno affermato che quel tipo di fenomeni avvengono regolarmente ed hanno insinuato che tali effetti siano normali , visto che qualcosa di simile è già successo 123 anni fa (basandosi sulla nota della NASA secondo la quale non si era visto niente di simile in 123 anni).

In realtà, le prime osservazioni (ovviamente in situ e non da satellite a quell'epoca) datano a 123 anni fa, quindi l'affermazione della NASA significa che non ci sono registrazioni storiche di un disgelo di questa portata. Di fatto, è facile dedurre che era molto tempo, come minimo dei secoli, che non si era verificata una cosa simile, semplicemente vedendo l'effetto causato dalla piccola parte di acqua che ha raggiunto i fiumi. Suppongo che negli annali della Groenlandia debbano avere le registrazioni delle alluvioni che si sono portate via i ponti...

La questione del disgelo superficiale in Groenlandia non è un problema minore. Durante le ore o i giorni in cui la calotta superficiale era liquida è rimasto esposto il ghiaccio più antico, che è di colore scuro e assorbe di più la radiazione solare, e quindi esso stesso si sarà in parte fuso. Una parte di quell'acqua sarà filtrata fino alla roccia (che si trova a circa 2000 metri al di sotto della superficie del ghiaccio, tale è lo spessore medio della calotta) e lì contribuirà ad aumentare i bacini d'acqua che lubrificano il movimento delle lingue di ghiaccio, accelerando la caduta di iceberg in mare. Inoltre, si saranno create più fratture nel manto ghiacciato. Insomma, il collasso della calotta di ghiaccio della Groenlandia ha accelerato. Continua ad essere un processo lento, che richiederà secoli, ma questi eventi possono aver accorciato tale lasso di tempo in modo sensibile. 

Questa stessa estate l'estensione del ghiaccio artico ha raggiunto il minimo storico. Guardate il seguente grafico, scaricato dal sito del National Snow and Ice Data Center:


Quello che vedete sono i grafici dell'area occupata dalla calotta di ghiaccio che galleggia sull'oceano Artico. La curva nera continua rappresenta la media 1979-2000. la fascia grigia che la circonda ci da un'idea della variabilità di quella superficie durante quei 21 anni (in quel periodo ci sono stati anni con maggiore o minore disgelo della media rappresentata dalla curva nera e la fascia grigia delle differenze di quel periodo). Naturalmente, ogni anno l'estensione del ghiaccio è minore in estate nell'emisfero nord e maggiore durante l'inverno. La curva tratteggiata rappresenta l'anno peggiore mai registrato: il 2007. Durante quell'anno, una serie di fattori climatici avversi ed alcune coincidenze hanno fatto sì che la calotta glaciale artica si riducesse a livelli mai visti. La curva azzurra rappresenta l'evoluzione di quella superficie di quest'anno. Quest'anno non ci sono stati tali fattori climatici, ama anche così la copertura di ghiaccio si è ridotta ancora di più che nel 2007. Si sospetta che il ghiaccio artico sia sempre più giovane e sottile. Se il processo continua nella sua progressione, nel peggiore degli scenari possibili, potremmo vedere l'Artico libero dal ghiaccio in un'estate introno al 2020. 

A parte questi fenomeni tanto estremi, c'è stata una moltitudine di altri fenomeni che indicano un aggravamento della indesiderabile tendenza al riscaldamento. Questi altri fenomeni, presi isolatamente, non sono di per sé segni inequivocabili del cambiamento climatico antropogenico, ma la loro associazione lo rende più verosimile, visto che sono il tipo di cose che dovrebbero succedere come corollario: ripetute ondate di calore in Europa e Spagna, siccità in ampie zone degli Stati Uniti e d'Europa (Spagna inclusa), ecc. Altri effetti meno direttamente in relazione al cambiamento climatico dovrebbero anche verificarsi. Per esempio, il progressivo disgelo dell'Artico debilita la circolazione del ramo nord della Circolazione Termoalina oceanica, che farà sì che in Europa arrivi meno caldo e umidità e che pertanto gli inverni tendono ad essere più secchi e freddi (e che di conseguenza il rendimento agricolo diminuisca). Per quello è preferibile parlare di “Cambiamento Climatico” e non di “Riscaldamento Globale”, perché anche se effettivamente la temperatura globale del pianeta stia aumentando e il pianeta nel suo complesso si stia riscaldando, il clima è il risultato di una risposta complessa con molti fattori ed in alcune zone si possono verificare, per effetti come quello descritto, fasi di raffreddamento relativo su scala regionale. 

Tutto questo non cambia la gravità del problema, ma data la costatata stupidità dell'essere umano nel comprendere i problemi su grande scala spaziale e temporale e il dispiegamento deciso da grandi gruppi di pressione di campagne negazioniste, è conveniente evitare che si confonda l'opinione pubblica con argomenti ridicoli e banalizzanti, tipo il cugino di Rajoy. Risulterebbe scioccante, non sapendo come funzionano queste cose, che proprio in questo anno in cui i segni del riscaldamento globale sono tanto evidenti si stia facendo in grande sforzo di propaganda per minimizzare i problemi e per confondere la popolazione. Anche se in realtà si ripetono sempre le stesse cose, in mancanza di altre migliori, mentre se ne abbandonano alcune che hanno fallito di fronte all'opinione pubblica (come l'affermazione che “i ghiacciai in realtà avanzano”). E si assicura, per esempio, che la “la variabilità climatica c'è sempre stata, sono effetti naturali”, ignorando il fatto che i registri paleocliamtici non mostrano mai un evento della grandezza attuale (il doppio di qualunque altro conosciuto) e velocità (decennni anziché secoli o millenni) e molto meno su scala globale, quando inoltre la variazione attuale si adatta perfettamente all'aumento della concentrazione di CO2 in atmosfera. In previsione che la battaglia dell'Artico sia perduta, c'è anche una corrente negazionista che sostiene che al contrario va tutto bene in Antartide, al punto che la superficie del mare ricoperta dal ghiaccio aumenta nell'emisfero sud. E sì, aumento, ma nella stessa misura in cui il volume di ghiaccio continentale diminuisce (in pratica si vede come positivo il fatto che l'oceano Antartico sia pieno di iceberg risultato del disgelo accelerato dell'Antartide). Senza contare che il ghiaccio che cade in mare è sempre più antico.

Nessuno è sicuro con quale velocità si svilupperanno gli effetti peggiori del cambiamento climatico, tant'è che persino la stessa IEA ha riconosciuto, nel suo rapporto annuale, che addirittura nel 2015 potremmo superare un tipping point o punto di non ritorno. Tuttavia, è molto probabile che alcuni degli effetti più indesiderabili associati al cambiamento climatico si stiano già manifestando: Vorrei sottolinearne uno in particolare il cui potenziale destabilizzante per le società umane è molto grande: la crisi dell'Acqua potabile, altrimenti denominato picco dell'acqua (o peak water).

E' paradossale che in un pianeta la cui superficie è per più di 3 quarti ricoperto di acqua si possa parlare di picco dell'acqua. Naturalmente il problema non è che non ci sia sufficiente acqua, ma che ci sia sufficiente acqua potabile per soddisfare le necessità umane. L'acqua è una risorsa rinnovabile, ma alcune risorse rinnovabili hanno tasso massimo di estrazione a partire dal quale si comportano come quelle non rinnovabili. A noi qui interessa un sottinsieme dell'acqua totale che è l'acqua potabile. Per essere potabile l'acqua deve rimanere incontaminata durante tutto il processo di accumulo naturale e inoltre bisogna rispettare il suo ritmo di recupero. Non facciamo niente di tutto ciò. Il nostro naturale disprezzo degli effetti dell'inquinamento industriale, unito alla nostra incapacità di gestire l'abbondanza e anche – seppur in misura minore – l'aumento della popolazione, ci ha portato a questa situazione curiosa in cui molti paesi si vedono minacciati da problemi legati alla mancanza d'acqua (potete vederne alcuni esempio a questo link). Di tutto l'ammasso di miseria globale che provoca la perdita di accesso ad un tale prezioso liquido, voglio concentrarmi su due paesi che saranno determinanti per il nostro futuro: Arabia Saudita e Stati Uniti. 

In Arabia Saudita, che lo crediate o no, il picco di fornitura dell'acqua dolce è stato raggiunto all'inizio degli anni 90 (come mostra questo grafico proveniente da wikipedia):


L'Arabia Saudita ha compensato questa diminuzione utilizzando acqua desalinizzata, al punto che attualmente rappresenta il 50% del consumo d'acqua del paese. Questi desalinizzatori usano molta energia elettrica, che in questo paese viene prodotta principalmente consumando petrolio e gas, vista la loro grande disponibilità, anche se questo fa sì che il consumo interno di petrolio stia accelerando, come mostra il grafico seguente ottenuto usando gli strumenti di Flujos de Energía:


L'inarrestabile aumento del consumo interno saudita sta portanto alla conclusione molto allarmante che il paese smetterà di esportare petrolio verso il 2030 (argomento dal quale si deducono molte altre conclusioni poco gradevoli  e alle quali torneremo in un prossimo post). L'altra grande fonte d'acqua in Arabia Saudita sono le sue falde acquifere, dalle quali l'Arabia Saudita è stata dipendente per anni, anche se sembra incredibile per un paese desertico, per produrre il proprio grano e persino per esportarlo. Naturalmente tale delirio non poteva continuare per sempre (al ritmo di sfruttamento di qualche anno fa, le falde acquifere si esaurirebbero questo stesso anno) e l'Arabia Saudita ha dovuto cambiare radicalmente la sua politica agraria, importando attualmente il 100% degli alimenti che consuma. 

Disgraziatamente, l'Arabia Saudita ha bisogno di acqua per qualcosa in più che il consumo umano e agricolo: per mantenere la sua produzione di petrolio, una connessione che molte volte viene deliberatamente ignorata ma che diventa cruciale quando si parla di pozzi molto vecchi che posso mantenere i loro livelli produttivi soltanto iniettando continuamente vapore acqueo in pressione (e questo fa sì che dall'allora grandioso Gawhar ora esca più acqua che petrolio). Prova del gigantesco sforzo che sta facendo l'Arabia Saudita per mantenere la produzione di questo vecchio giacimento petrolifero è questa mappa di sfruttamento che ho tratto dal link precedente:

Mappa presa dal sito The Oil Drum, http://theoildrum.com. I punti rossi rappresentano pozzi di estrazione di petrolio, con importanti ramificazioni (frattura orizzontale). Il perimetro di punti azzurri sono pozzi di controllo o di osservazione.


Tale ingente quantità di acqua potrà venire dai desalinizzatori, con un grande costo energetico ed aumentando il consumo del paese, nel caso dei giacimenti più vicini alla costa, ma dovrà necessariamente provenire dalla falda acquifera per i pozzi più interni, fintanto che il suo livello non si abbassi troppo, e quando questo succede dovrà essere pompata dalla costa. Naturalmente non è indispensabile usare acqua dolce, si può usare anche quella salata direttamente, ma questo aumenta la corrosione e la formazione di depositi di sale che accorciano la vita utile delle installazioni e in alcuni casi accorciando la vita utile dei giacimenti stessi (per l'accumulo di sale negli strati profondi). Sommate a questo che il paese probabilmente sta diventando sempre più arido a causa del cambiamento climatico, quindi in un futuro per niente lontano tutta l'acqua per tutti gli usi dovrà provenire dal mare, con un aumento ingente di costi economici ed energetici. Ed ora ricordate che, come abbiamo già detto, gli enormi programmi di assistenza sociale che mantiene l'Arabia Saudita presuppongono un costo talmente grande che alla casa regnante saudita non consente che il prezzo del petrolio al barile scenda sotto i 90$ (il che significa oltre il limite che può permettersi l'economia mondiale, circa 80$). Tante difficoltà sommate in un solo posto fanno sì che il futuro dell'Arabia Saudita sia non solo incerto, ma estremamente pericoloso. Momento in cui un fattore fallisca, tutto il paese può crollare come un castello di carte.  

Negli Stati Uniti il problema del picco dell'acqua è ugualmente un tema centrale, come mostra l'importanza che gli hanno concesso i media. Anche gli Stati Uniti hanno le loro falde acquifere in via di esaurimento: la falda di Olgallala, un autentico mare sotterraneo che si stima contenga 313 chilometri cubici e dal quale dipende il 27% dell'irrigazione di quel paese. Tuttavia, ai ritmi di sfruttamento attuali, la falda potrebbe prosciugarsi, secondo le stime più pessimistiche, nei prossimi 20 anni. E se questo fosse poco, gli Stati uniti stanno affrontando la loro peggiore siccità dal Dust Bowl degli anni 30 (in realtà, ora gli indici sono peggiori di allora), come illustra la seguente mappa:


Anche negli Stati Uniti si rivela una connessione forte fra energia e uso dell'acqua. Negli Stati Uniti si presume che si sia riusciti ad aumentare la produzione di petrolio e invertire la tendenza degli ultimi decenni grazie all'apporto dei petroli non convenzionali, soprattutto i tanto pubblicizzati petroli di scisti, e che addirittura gli Stati Uniti potrebbero tornare ad essere un paese esportatore. Niente di più lontano dalla realtà, come ci mostra un'analisi di Gail Tverberg nel suo blog "Our finite world": in realtà, ciò che ha portato ad invertire la tendenza sono i scarsamente utili biocombustibili (in termini di energia netta). Le cose sono in realtà peggiori: i petroli di scisti sono quelli che permettono mascherare il fallimento dei gas di scisti (della cui produzione sono un sottoprodotto), ma solo se il prezzo del petrolio si mantiene elevato ed al costo di esportare miseria nel resto del mondo abusando del fatto che il dollaro è la moneta più accettata. Tenere in vita la chimera energetica ha inoltre un alto costo in termini di acqua: sistema di Fratturazione Idraulica usato per l'estrazione del petrolio e del gas di scisti richiede delle grandi quantità di acqua (secondo il Dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti, da 1 a 3 barili d'acqua per ogni barile di petrolio), sottraendolo ad altri usi. Un altro problema conosciuto dello sfruttamento degli scisti è che il metodo della fratturazione idraulica inquina le falde acquifere con una gran quantità di sostanze tossiche ed inquinanti (ho sostituito il link originale con uno probabilmente più interessante per un pubblico italiano, ndT.). Questo problema, una volta generato, persisterà per molto tempo, ma non si manifesta immediatamente. In quelle zone dove si estende di più questa pratica, l'inquinamento del fracking sarà un fattore in più di degrado ambientale. La crisi di inquinamento del fracking si svilupperà negli Stati Uniti durante i prossimi decenni, il che è cruciale, vista la sua importanza nel mercato mondiale dei cereali. Ma su un lasso di tempo più breve, la grave siccità e le difficoltà di avere più acqua fossile (falde) negli Stati Uniti, uno dei più grandi produttori di cereali nel mondo, incide nel peggior modo possibile nella terza crisi di cui voglio parlare oggi, che è anche quella che con maggiore probabilità scatenerà un'ondata distruttiva globale a breve termine: la crisi alimentare. 

L'indice dei prezzi degli alimenti della FAO è un buon indicatore della carestia degli alimenti nel mondo. Questo indicatore si genera mettendo insieme il prezzo dei diversi alimenti chiave campionati nei vari paesi del mondo (in realtà nei principali mercati del mondo). Il grafico che segue ci mostra la sua evoluzione durante gli ultimi due decenni: 



L'indice dei prezzi degli alimenti della Fao è anormalmente alto dal primo picco del 2008, punto dal quale si sono scatenati disordini in decine di paesi. Nel 2011 è giunto al suo massimo storico (è una serie breve, comunque, visto che l'anno di riferimento è il 1990) e da allora è leggermente diminuito. Poco, in realtà, per i molti paesi la cui economia si sta sbriciolando rapidamente come conseguenza della nuova ondata di recessione. Ma il fatto è che in più ci si aspetta che il raccolto degli Stati uniti sia molto minore quest'anno a causa della siccità di cui parlavamo prima. Non è l'unica pressione sul mercato degli alimenti. A margine dei fattori locali (siccità anche in Europa, incendi in Russia, infestazioni in Africa...) c'è sempre la questione dei biocombustibili (ricordiamo che nel 2010 il 6,5% della produzione di cereali e l'8% della produzione di olio vegetale del mondo è stato destinato alla fabbricazione di biocombustibili). In un momento in cui i prezzi rimangono alti e minacciano di salire in qualsiasi momento, organizzazioni come Oxfam fanno un appello per placare la sete di biocombustibili dell'Occidente ed in particolare dell'Europa. Gli Stati Uniti non se ne stanno a margine di questo problema; negli anni scorsi il paese americano ha destinato il 43% della sua produzione di mais alla produzione di bioetanolo e se quest'anno provasse a mantenere la stessa quantità assoluta, la percentuale sarebbe maggiore, lasciando poco mais disponibile per altri usi (assurdo, visto che ha un EROEI ridicolo, nell'ordine di 1:1). Ed è così che i pezzi del macabro puzzle cominciano ad incastrarsi, in modo fatale per noi. Un recente studio del MIT ha scoperto una significativa correlazione fra gli alti prezzi del petrolio e lo scoppio di rivolte, come mostra il principale grafico del lavoro: 


Nel grafico ci sono, nell'asse temporale, gli episodi di rivolta in tutto il mondo, indipendentemente dalle sue cause apparenti. Questi episodi, segnati come linee tratteggiate rosse, si sovrappongono sul grafico dell'indice dei prezzi degli alimenti. Sappiamo già che l'esistenza di tale correlazioni non implica causalità (prezzi e rivolte possono, entrambi, corrispondere ad una terza causa o meglio possono esserci più cause che non sempre accadono contemporaneamente, ma nella serie data sì), anche se un tale collegamento sembra ragionevole. Tanto ragionevole che un quotidiano conservatore spagnolo ,ABC, si è fatto eco di questo studio e invoca la fame come causa più probabile delle attuali rivolte antiamericane nei paesi musulmani e di quelle degli anni passati. Quello che è realmente curioso è che questo studio del MIT ha quasi due anni. 

Nello stesso periodo in cui usciva lo studio del MIT ho scritto il post  “Rivolte della fame, anticamera del caos”. In quell'articolo andavo un po' oltre. Associavo alla cosiddetta Primavera Araba dell'inizio del 2011 con l'improvviso aumento dei prezzi degli alimenti, frutto dell'aumento del petrolio, visto che in Nord Africa ed in Medio Oriente sono molto dipendenti dall'importazione di alimenti, soprattutto da paesi con sistemi agricoli industriali, i quali consumano grandi quantità di energia, in particolare di petrolio (ricordate che secondo il professor David Pimentel, per ogni caloria di alimenti che arriva sul piatto di un occidentale sono state consumate 10 calorie di combustibili fossili). Da quello che vedo, ora si comincia a riconoscere che la causa immediata di queste rivolte non è l'arrivo di twitter, facebook o altre reti, né il logico desiderio di democrazia, ma una causa più banale e più forte della capacità di repressione dei governi: la fame. E' necessario comprendere il fatto che il nostro sistema economico e la sua struttura produttiva ci sta portando ad una situazione di carestia di alimenti  irrimediabile e sicuramente permanente, così come indica Jeremy Grantham nella sua ultima lettera agli investitori. Ed anche se in modo cinico potremmo pensare che la crisi alimentare sia solo un problema dei paesi poveri, che non possono permettersi di pagare i propri alimenti, in realtà pone in un imminente pericolo i paesi occidentali. Perché la lista dei paesi principalmente colpiti dalla sua dipendenza alimentare dall'estero ci sono i maggiori paesi produttori di petrolio al mondo, a cominciare dall'Arabia Saudita.

Abbiamo, quindi, che oltre la crisi economico e finanziaria, ci sono tre crisi gravi e profonde: quella energetica, quella dell'acqua (risultato del cambiamento climatico) e quella degli alimenti. Tre crisi che interagiscono fra loro. Ognuna di queste crisi ha ritmi diversi, ma l'aggravamento di una di esse porta con sé l'aggravamento delle altre: mancando l'energia ci spostiamo su metodi estrattivi più aggressivi, che rilasciano più CO2, consumano più acqua ed inquinano di più, aggravando il cambiamento climatico, la disponibilità di acqua potabile e la produzione di alimenti. L'avanzare del cambiamento climatico restringe l'accesso all'acqua e aggrava la crisi alimentare. E quando le condizioni di vita si fanno più dure serve più energia. La mancanza di alimenti condurrà a scoppi sociali su scala globale, a rivolte, alla caduta di governi e di stati, riducendo l'accesso globale all'energia, portando a soluzioni energetiche più pericolose e all'accaparramento e alla mala gestione dell'acqua. All'inizio gli effetti più negativi di questi processi impiegheranno da anni a decenni per realizzarsi, perché diventino visibili in tutta la loro intensità. Ma c'è un fattore extra che può accelerare tutto: l'accaparramento delle terre (land grabbing). 

In un mondo in cui le opportunità di di fare affari cominciano a scarseggiare, dove non rimangono più grandi miniere da sfruttare, il nuovo Eldorado degli investimenti internazionali, l'ultima frontiera, risulta essere la prima, la prima cosa alla quale l'uomo della Rivoluzione Neolitica diede un prezzo: la terra coltivabile. Le imprese multinazionali occidentali, le imprese statali dei paesi del Golfo Persico e della Cina si sono lanciati da oltre un decennio nell'accaparramento di terre coltivabili su grande scala e in tutto il mondo: Africa, Asia, Sud America e, più recentemente l'Europa. Il problema è particolarmente grave in Africa: il 5% di tutte le terre coltivabili è in mano a queste compagnie. In molti casi, queste compagnie approfittano della scarsa protezione legale che hanno gli agricoltori tradizionali che hanno coltivato quelle terre per generazioni. Con la cooperazione dei governi nazionali o locali corrotti, dalla notte al mattino gli agricoltori si vedono espropriati del povero sostentamento che da da mangiare, in molti casi, a diverse famiglie. In altri paesi, il comportamento di queste compagnie è più “civile”, anche se il risultato è lo stesso. Il problema dell'accaparramento delle terre è un dramma di intensità planetaria che, tuttavia, passa in sordina in tutti i media di comunicazione occidentali, forse come brve rassegna occasionale nella sezione “Società”. Perché queste compagnie vogliono così tante terre? In alcuni casi (Paesi del Golfo Persico o Cina), per assicurare la propria sicurezza alimentare. Così, grazie ai petrodollari, questi paesi stanno stanno esportando la fame che ci sarebbe nei loro territori insostenibili. In altri casi, per incrementare la produzione globale di biocombustibili, principalmente soia, visto che è la cosa di cui si ha più bisogno adesso è il diesel. E questo nonostante l'EROEI della soia sia molto basso (da quanto si può verificare, inferiore a 2:1) e non si può giustificare la sua produzione se non con le enormi sovvenzioni fornite da Stati Uniti ed Europa e dall'obbligatorietà che nei carburanti commercializzati ci sia una percentuale di biocombustibile nella miscela. E in altri casi le compagnie si accaparrano la terra semplicemente perché sono attivi che si rivalorizzano, cioè, le comprano non con l'intenzione di coltivarle, ma di speculare. 

Vediamo, pertanto, che la risposta ai problemi complessi che abbiamo di fronte è solo una: più BAU. Scarseggiano gli alimenti? Accaparriamoci le terre e coltiviamole in modo industriale, nonostante l'evidente insostenibilità, non tanto a lungo termine, ma anche a breve termine in uno scenario di prezzi del petrolio alti. Manca l'acqua? La desalinizziamo in modo massiccio (ributtando la salamoia prodotta in mare e portando così uno squilibrio negli ecosistemi delle coste) o la trasportiamo da grandi distanze (impoverendo le risorse idriche di altre zone), tutto ciò con grande consumo di materiali ed energia. Si scioglie l'Artico e la Groenlandia? Fantastico: possiamo saccheggiare le loro risorse minerarie. Ma l'approccio BAU è straordinariamente miope. Tanto miope che è incapace di vedere che le sue proposte non possono mantenersi che per pochi anni, forse per pochi mesi. E prepara così uno scenario da incubo verso il quale avanziamo a ritmo esponenziale. 

E' ovvio dove finirà tutto questo, dove ci sarà la rottura. Tutti questi movimenti si manifestano diminuendo la disponibilità di alimenti per la maggioranza della popolazione del pianeta, perché l'accesso ad essi è stato accaparrato direttamente o indirettamente (acqua, prezzo, …) e il prodotto risultante è diretto ad alcuni mercati concreti e ristretti: Occidente, paesi del Golfo, Cina... Ma gli alimenti non sono una commodity in più, non stiamo parlando di restringere l'accesso all'I-phone o alla macchina. Per quanto tempo pensiamo di mantenere questa situazione? Davvero crediamo che la gente si lascerà morire di fame? Accetterà di veder morire di fame i propri figli ed i suoi genitori? 

Jeremy Grantham lo dice chiaramente nella lettera trimestrale ai suoi investitori: Benvenuti a Distopia. Un nuovo mondo dove i problemi alimentari sono strutturali, ricorrenti e peggiorano col tempo. Dove il sovrasfruttamento delle falda acquifere porta alla sua salinizzazione e far diventare le terre sterili. Dove l'eccesso di aratura industriale e l'uso di fertilizzanti industriali degrada lo strato vivo del suolo, minacciando di desertificare le terre coltivabili. Dove gli alti prezzi degli alimenti  faranno in modo che la maggioranza della popolazione del mondo non abbia accesso ed una quantità minima di alimenti. Un mondo dove la violenza e i grandi movimenti migratori, su una scala senza precedenti, saranno normali. Benvenuti in un mondo dominato dalla guerra e dalla fame. 

Nel suo libro “Collasso: come le società scelgono di morire o vivere”, Jare Diamond dedica un capitolo al genocidio del Ruanda degli anni 90 del secolo scorso. E la conclusione che sembra emergere è semplice: più che l'odio razziale (in proporzione alle relative popolazioni, morirono tanti Hutu quanti Tutsi, in realtà), quello che diede impulso al genocidio è stata la mancanza di risorse, la fame. Il libro raccoglie una frase, pronunciata da un maestro Tutsi, che lo riassume molto bene: “Le persone i cui figli dovevano andare scalzi a scuola, hanno ucciso le persone che potevano comprare scarpe per i propri”. E' prevedibile che, nella misura in cui la fame si estende con più forza nel mondo, scoppino più rivolte, più conflitti e più guerre civili. Non crediate che la primavera araba sia finita coi problemi di Tinisia, Egitto e Libia... Quei paesi, ed i loro vicini, non hanno raggiunto la stabilità e non la raggiungeranno in un futuro prossimo, perché il loro problema essenziale non è la mancanza di libertà o le diseguaglianze sociali, ma la loro incapacità di dar da mangiare in modo adeguato alle loro popolazioni. E se ci fossero rivolte in Uganda o in Mozambico ci porterebbe allo stallo del nostro ricco occidente, ci importerà molto di più quando milioni di migranti di diverse provenienze busseranno alle porte delle nostre case, in cerca non di un futuro migliore, ma semplicemente di un futuro, di non morire di fame. Ma quando questa stessa instabilità colpisce paesi il cui sottosviluppo è stato per noi conveniente, perché così ci hanno esportato a basso prezzo le loro materie prime, e specialmente quando queste rivolte colpiscano i principali produttori di petrolio, allora comincerà la guerra. In Occidente e in Oriente la macchina della propaganda è ben lubrificata dopo decenni passati a convincere del contrario di quanto accade (fumare fa bene, il cambiamento climatico è un processo naturale, il libero mercato è la soluzione a tutti i problemi, il progresso umano è inarrestabile, si stanno prendendo le misure per porre fine alla crisi, questa crisi finirà presto, viviamo nel migliore dei mondi possibili...) si impegnerà a fondo per convincerci che le rivolte che scoppieranno ovunque contro le imprese occidentali che si accaparrano il sostentamento dei paesi depredati, sono in realtà attacchi terroristici perpetrati da pericolosi estremisti. E quando qualche grande produttore di petrolio soccomberà a causa delle contraddizioni interne, le nostre truppe intraprenderanno una guerra di occupazione dissimulata come “consenso internazionale per ristabilire il sistema legate precedentemente in vigore”, retorica per camuffare che non si pretende restaurare una democrazia che, ovviamente, prima non c'era (non ho dovuto nemmeno inventare queste espressioni: sono le stesse che sono state usate per giustificare l'intervento delle potenze occidentali quando l'Iraq ha invaso il Kuwait nel 1991). 

Tutto questo caos, tutte queste guerre, aggravano soltanto la situazione e la fame. Quante guerre contemporaneamente potrà permettersi l'Occidente? Quanti paesi dovrà occupare per poter saziare la sua sete di petrolio? Inoltre, come ha dimostrato la Libia, le guerre fanno sì che la produzione si deteriori, per mancanza di manutenzione delle installazioni, danni diretti che ricevono, mancanza di nuovi investimenti – in un momento critico come questo, nel quale per mantenerci dobbiamo investire come se non ci fosse un domani -, ecc. Abbiamo accumulato tanta tensione e tante contraddizioni nel contesto globale che, a partire dal momento in cui i problemi superino una soglia critica, un livello abbastanza elevato, si produrrà una valanga di problemi che per forza deve trascinarci nel fango della Storia. Alla fine, negli stessi paesi occidentali scoppieranno rivolte per la mancanza di alimenti alla quale credevamo di essere immuni perché pensavamo che li avremmo sempre potuti pagare (al momento solo coloro che sono finiti nella Grande esclusione sanno che la fame qui non è una chimera ). Probabilmente saranno le Guerre della Fame che metteranno in ginocchio la civiltà occidentale.

Per tutto questo capirete che mi risulta difficile credere che la nostra evoluzione sarà tanto positiva quanto la mettiamo su carta. Piani basati su un'evoluzione dolce e progressiva delle condizioni, cosa per oggi impossibile data tutta la tensione accumulata, le retroazione fra tutti i fattori negativi e la determinazione suicida del BAU. Non ci resta molto tempo. Possono essere mesi, forse anni, prima che lo scoppio della fame mondiale, il ruggito di rabbia dell'Umanità umiliata, finisca per trascinarci nel caos. Siamo ancora in tempo per invertire la situazione, se almeno ne siamo coscienti. 

Saluti.
AMT