venerdì 3 novembre 2017

Effetto "McBeth”


di Jacopo Simonetta

Preludio



Può la crescita economica rendere più poveri anziché più ricchi? La risposta è “SI”.


Il modello di base è quello della “crescita antieconomica” di H. Daly che spiega tanta parte del nostro presente e del nostro futuro. Rimandando al link per i dettagli, possiamo dire che per la fatidica dinamica dei ritorni decrescenti, superato un limite non chiaramente prevedibile, il cumulo dei costi indiretti supera fatalmente quello dei vantaggi diretti. Da questo punto in poi, la crescita economica può anche continuare, ma rende la gente sempre più povera, anziché sempre più ricca. Ma perché mai uno dovrebbe continuare ad investire ed a lavorare per stare peggio?

Ci possono essere diverse ragioni. Per esempio, può non essere chiaro se il fatale limite sia stato oltrepassato o meno; oppure ci possono essere poche persone che guadagnano molto e tante che collettivamente perdono di più, ma individualmente perdono poco. Ovviamente, quelli che guadagnano si organizzano per difendere i loro privilegi, mentre coloro che ci rimettono di solito neanche capiscono in che modo gli spariscono i soldi. Esiste però anche un altro meccanismo molto più insidioso: una vera trappola da cui è spesso impossibile sfuggire, anche quando ci si rende conto di cosa stia succedendo.

La trappola

“Oramai sono così sprofondato nel sangue che fermarmi e tornare indietro sarebbe altrettanto faticoso che andare avanti”.   Questa celebre battuta della tragedia shakespeariana esemplifica bene una trappola in cui tipicamente si cade quando si investe nello sfruttamento di un sistema senza tenere sufficientemente conto del suo funzionamento e della sua resilienza.   Cerchiamo di capirci con qualche esempio pratico.

Un caso da manuale è quello dell’estinzione dei banchi di pesce e, conseguentemente, delle imprese di pesca con le relative filiere fino, eventualmente, alle banche creditrici. La trappola scatta quando, a fronte di una riduzione del pescato, le imprese rispondono investendo in mezzi più potenti che depauperano ulteriormente la risorsa e così via in una tipica retroazione positiva (rinforzante). In assenza di fattori limitanti esterni efficaci (limiti di legge, limiti del credito, ecc.), il sistema giungerà necessariamente ad un punto in cui pescare diventerà anti-economico. Ma se saranno stati fatti investimenti troppo grandi non ancora ammortizzati e/o debiti non ancora ripagati, i pescatori saranno costretti a continuare a pescare sempre di più, anche in perdita, anche se si rendono conto che stanno distruggendo la loro risorsa.  Così come le banche saranno costrette a rinnovare loro i crediti per guadagnare tempo, sperando in un miracolo.

Un meccanismo analogo sta alla base del consumo di insostituibile suolo per continuare a costruire case, malgrado le imprese costruttrici siano sovraccariche di appartamenti e villette invendute.   Se non vendono, perché continuano a costruire?  Perché se smettessero le banche non rinnoverebbero loro dei crediti che non possono pagare.  Così ognuno continua, sperando che altri schiattino prima di lui, liberando spazi di mercato che potrebbero salvarlo.  Anche le banche creditrici continuano a sostenerli, sapendo che dalla liquidazione di quelle imprese non recupererebbero mai quanto loro dovuto.


Saliamo di scala. 

Oramai da anni, per molti campi petroliferi il costo di estrazione e raffinazione supera il prezzo a cui il petrolio può essere venduto; un meccanismo che sta mettendo più o meno in crisi imprese e petrocrazie .   Eppure tutti questi soggetti, anziché accordarsi per tagliare la produzione e sostenere i prezzi, si affannano a pompare a più non posso.   Follia collettiva?   Penso di no.  Nel periodo dei prezzi alti ed in previsione di ulteriori aumenti, le imprese hanno fatto degli investimenti miliardari ed avviato progetti di estrazione in condizioni estreme. Tutti costi che non sono ancora stati ammortizzati; ciò significa che se ora abbandonassero i progetti dovrebbero mettere a bilancio perdite enormi, perdere il credito e probabilmente fare bancarotta.  Inoltre, progetti particolarmente impegnativi sul piano tecnico e finanziario, se abbandonati, difficilmente potranno essere ripresi.   Spesso si lavora quindi in perdita, sperando in una ripresa dell’economia globale, oppure nel fallimento dei concorrenti.

Per quanto riguarda le petrocrazie il quadro è analogo, con l’aggravante che, più o meno tutti questi paesi, hanno approfittato del periodo di prezzi molto alti per avviare programmi di spesa che non possono più sostenere, ma che è pericoloso interrompere. Il Venezuela e l‘Arabia Saudita sono casi emblematici.

Qualcosa di funzionalmente analogo avviene anche in politica.  Perfino le dittature, a maggior ragione le democrazie, per durare a lungo hanno bisogno di mostrare qualche successo all’opinione pubblica.   Finquando le cose vanno abbastanza bene non ci sono quindi grossi problemi, ma quando le difficoltà quotidiane cominciano a stringere la cintura di troppi cittadini troppo a lungo, occorre ridirezionare il malcontento. Per esempio su di un nemico esterno, oppure su di una minoranza interna od altro, secondo il contesto.   Ma quando leader e partiti cominciano a cercare il sostegno delle frange più oltranziste dell’opinione pubblica (integralisti religiosi, nazionalisti, ecc.), rischiano fortemente di trovarsi poi intrappolati in situazioni in cui o fanno qualcosa che sanno essere sbagliato, o perdono il potere e, magari, la vita.  

La recente vicenda della “ brexit” è emblematica in questo senso. Nato nella testa di David Cameron non per essere fatto, ma solo come trovata propagandistica, il referendum ha finito per essere votato ed approvato.  Questo ha proiettato l’intera classe dirigente inglese nel panico perché non era quello che contavano accadesse, al punto che ad oggi, oltre un anno più tardi, il governo ed il parlamento non sono ancora riusciti a mettere insieme una strategia.   Anzi, neppure un elenco completo delle cose da fare.  Certo, avrebbero potuto rimangiarsi la “papera” e le occasioni non sono mancate, ma per coglierle avrebbero dovuto ammettere di aver deliberatamente mentito per ingannare gli elettori.   Un fatto che li avrebbe cancellati dalla scena politica e che, perciò, nessuno ha avuto il coraggio di fare. 

In questo periodo sono molti i leader che si stanno cacciando in tipiche “trappole McBeth”: da Netanyau a Kim Jong Un, Putin  e Trump, ma forse l'esempio più di attualità ce lo fornisce il duo Rajoy-Puidgemont.   Entrambi hanno fatto di tutto per infilarsi in una situazione in cui non hanno più margini di manovra.  Il guaio è che, comunque vada, i catalani possono solo perdere una parte non sappiamo quanto consistente del loro tenore di vita.  Ma anche gli altri spagnoli e tutti gli europei ne avranno un danno.

 In cima alla scala.

Forse la più stretta analogia con la celebre tragedia si trova però alla massima scala: quella globale.   Negli anni ’70 un certo numero di streghe e di stregoni esperti in dinamica dei sistemi, ecologia e termodinamica avevano ampiamente avvertito del fatto che l’umanità si trovava ad un bivio: o accettare dei limiti, o distruggere la civiltà e buona parte del Pianeta con essa.  Altri stregoni, più pratici di psicologia che di scienza, ci hanno però detto che il nostro regno sarebbe durato per sempre e, collettivamente, abbiamo scelto di credergli.   Ora che dagli spalti di Dunsidane si vedono le prime frasche della foresta di Birnam in marcia, qualcuno comincia a rendersi conto dell’errore commesso. Ma per tornare indietro sarebbe oramai indispensabile prendere provvedimenti talmente drastici da provocare un disastro subito.   Per esempio, 70 anni fa per mantenere la popolazione umana entro limiti sostenibili, sarebbe stato sufficiente ridurre la natalità; oggi sarebbe necessario anche ridurre l’aspettativa di vita dei vecchi. Chi potrebbe ragionevolmente proporre una cosa simile?   

Parimenti, buona parte delle più devastanti retroazioni climatiche pronosticate si stanno manifestando con netto anticipo: dall’esalazione di metano dal permafrost e dai fondali marini, alla riduzione dell’albedo artica, alla ridotta attività fotosintetica, eccetera.  Ciò significa che, se davvero volessimo contenere l’aumento di temperatura media entro i 2 C° (che sono già molto dannosi), dovremmo tagliare brutalmente la produzione agricola ed industriale e farlo subito. Cioè condannare miliardi di persone ad una miseria senza precedenti. 


In sintesi.

Insomma, l’”effetto McBeth” è una trappola che si chiude gradualmente, man mano che qualcuno (individuo, azienda, classe sociale, nazione, umanità) mantiene una strategia che in passato ha dato buoni risultati anche quando questa comincia a non funzionare più.  Ad ogni passo innanzi il prezzo da pagare per procedere aumenta, ma aumenta anche il prezzo da pagare per tornare indietro. 

C’è una speranza? Secondo me si.  Per quanto le nostre conoscenze scientifiche siano senza precedenti, sappiamo infatti che i sistemi reali sono comunque più complessi di ogni possibile modello.  Esiste quindi la concreta possibilità che in futuro avvenga qualcosa di imprevisto che cambi le carte in tavola.  Ancor più importante è il fatto che, anche a fronte di un collasso globale, non tutte le regioni della Terra avranno lo stesso, identico destino. Man mano che il meta-sistema globale andrà in pezzi, i sub-sistemi che ne nasceranno seguiranno infatti traiettorie diverse.  Talvolta molto simili, talaltra divergenti e non c’è modo oggi di prevedere quali saranno i fattori chiave che faranno la differenza. Perciò sono convinto che l’unica cosa sensata che ci resta da fare sia cercare ti tenere la nostra barca europea pari il più a lungo possibile e, intanto, cercare di procurarsi un qualche tipo di cintura di salvataggio.  Il Titanic sta affondando, ma non tutte la cabine andranno sotto contemporaneamente e non tutti affogheremo.   Su questo possiamo contare, cerchiamo perlomeno di non buttarci in mare da soli.


martedì 31 ottobre 2017

Scienziati derelitti? E' proprio vero che quando non hai più argomenti, non ti restano che gli insulti.

La saggezza convenzionale dice che non ci si dovrebbe mettere in polemica con certa gente; in primo luogo non serve e poi gli dai una visibilità che non si meritano. Ma farò un'eccezione per questo post di Massimo Lupicino su "Climatemonitor," che riproduco nella sua interezza più sotto. Non è una cosa bella, ma è un buon esempio di come ci si può ridurre quando non hai più argomenti e non ti restano che gli insulti. O, forse, è semplicemente il caldo eccessivo per la stagione che da alla testa.

Non faccio ulteriori commenti - mi sembra che non ce ne sia bisogno - e lascio il giudizio ai lettori (UB).

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Vi ho sbirciati in posti che mi ero ripromesso di non frequentare, come fa un guardone consapevole della sua debolezza e della somma inutilità del gesto. E vi ho visti.
Vi ho visti rabbiosi, lividi, stupefatti e mortalmente offesi dalla sola idea che qualcuno la possa pensare diversamente da voi.
Vi ho visti pavoneggiarvi nel citare a sproposito altisonanti leggi della fisica, ed essere spernacchiati nel vostro stesso campo da forumisti di passaggio, radiati con effetto immediato dalla comunità, immagino per lesa maestà climatista.
Vi ho visti inveire contro chi si è permesso di raccontare altre storie rispetto a quelle che più vi piacciono. Storie comunque referenziate e argomentate, a differenza di quelle che amate leggere e sentire ripetere dalla gran parte dei media.
Vi ho visti insultare persone per nome e cognome, talvolta vostri colleghi ben più noti e titolati di voi, spargendo escrementi nel ventilatore, insinuando in modo volgare e basso.
Vi ho visti definire Christy un dilettante, una macchietta, un non-scienziato. Dall’alto delle vostre cattedre virtuali fatte di sproloqui e di invettive su siti più o meno desolati della provincia dell’Impero Climatista. E che cosa sarà mai l’onorificenza per “Eccezionale merito Scientifico” conferita dalla vostra (altrimenti) amata NASA allo stesso Christy, al cospetto della vostra manciata di “like” sui social network?
Vi ho visti irridere rispettati e stimati scienziati italiani del clima, che ai benpensanti come voi piace chiamare in altri contesti “cervelli in rientro”. Liquidandoli come “astrologi”, negando loro la dignità stessa di scienziato o ricercatore. Titoli che invece vengono generosamente riconosciuti a venditori di olio di serpente che impazzano sui media ma che si comportano come chi la scienza non l’ha mai frequentata in vita sua, nemmeno su Second Life.
Vi ho visti diffidare i pochi forumisti che vi leggevano dal frequentare siti pericolosi, accusati di diffondere fake news. Come si faceva molti anni addietro con quei libri sconvenienti che poi gli stessi censori andavano a leggersi di nascosto, abbandonandosi a pensieri impuri.
Vi ho visti, non mi siete piaciuti, ma sono contento che esistiate. Perché “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Lo dice l’Articolo 21 della Costituzione italiana. E non c’è narrativa pelosa sulle fake news o sull’hate speech che tenga, a fronte di questo diritto. Specie quando la narrativa in questione sembra nata dall’esigenza di chiudere la bocca a qualcuno, magari per lasciare qualcun altro libero di inveire ed insultare a difesa della causa “giusta”.
Vi ho visti, non mi siete piaciuti, ma vi voglio bene. Perché siete dei derelitti, esattamente come il sottoscritto, nel momento in cui andate a sbirciare in casa altrui per poi parlarne male in casa propria, e diffidare altri dal fare la stessa cosa. E quindi, a mo’ di ramoscello d’olivo, vi dedico anche una canzone (una cover in realtà) che vi piacerà, perché è seria come le vostre cause e compunta come le vostre sembianze quando ci annunciate come intendete salvare il mondo. A pensarci bene sembra scritta proprio per voi, anzi, per noi: You’re my Ramshackle, and I’ll love you clean” recita il ritornello, che mi piace tradurre: “Sei il mio derelitto, e ti vorrò bene, se ti dai una ripulita” (in calce il testo completo, con traduzione 😉 )
Allora, ce la diamo, questa ripulita?

venerdì 27 ottobre 2017

L'ottimismo sul clima è stato un disastro. Ci serve un nuovo linguaggio – disperatamente

Da “The Guardian”. Traduzione di MR

Di Ellie Mae O'Hagan

Il meteo estremo degli ultimi mesi cambia le carte in tavola: di sicuro adesso il mondo è pronto per parlare di cambiamento climatico come una catastrofe da collasso della civiltà



 Una casa alluvionata a Houston. “Grandi aree delle superpotenze globali dominanti è stata decimata da due tempeste che fanno impallidire Katrina in meno di un mese”. Foto: David J Phillip/AP

Nel 1988, quando lo scienziato James Hansen ha detto ad un comitato del senato che era “tempo di smettere parlare a vanvera e dire che ci sono prove molto chiare del fatto che l'effetto serra è già qui”, coloro che lo hanno preso sul serio pensavano che se solo avessero insistito nell'enfatizzare che questo fatto terribile ci avrebbe alla fine distrutto, si sarebbe agito. Invece è avvenuto il contrario: di fronte alla terribile realtà del cambiamento climatico, la maggior parte della gente tendeva a rifugiarsi in una visione panglossiana del futuro, o semplicemente non voleva ascoltare.

E' stato fatto molto lavoro da allora per capire perché il cambiamento climatico sia cosi unicamente paralizzante, principalmente da George Marshall, autore del libro “Non pensarci nemmeno”. Marshall descrive il cambiamento climatico come “il crimine perfetto e non rilevabile al quale tutti contribuiscono ma per il quale nessuno ha un movente”. Il cambiamento climatico è sia troppo vicino sia troppo lontano perché noi riusciamo ad interiorizzarlo: troppo vicino perché lo peggioriamo con le azioni di ogni minuto delle nostre vite quotidiane; troppo lontano perché fino ad ora è stata una cosa che colpisce stranieri in paesi stranieri, o versioni future di noi stessi che possiamo concepire solo in modo effimero.

E' anche troppo enorme. La verità è che se non agiamo ora per il clima, le scarsità alimentari, le migrazioni di massa e l'instabilità politica che causerà potrebbero vedere il collasso della civiltà nell'arco delle nostre vite. Chi di noi può sostenere questa consapevolezza?

Non sorprende quindi che qualche anno fa gli attivisti del clima siano passati ad un messaggio di ottimismo. Hanno dato retta a studi che mostravano che l'ottimismo era più galvanizzante della disperazione ed hanno iniziato a parlare di storie di speranza, emancipazione e successo. Hanno aspettato che si verificasse qualche evento meteorologico estremo per far sì che gli ultimi pezzi del puzzle andassero al loro posto. Forse l'alluvione di New Orleans sarebbe stata sufficiente; forse alcune delle persone bianche e ricche che sono state strapazzate dall'uragano Sandy avrebbero usato il loro privilegio per richiedere azione. Forse Harvey o Irma – ed ora Maria – avrebbero provocato la fuga dal nostro stordimento. Non è accaduto.

Piuttosto, penso che quello che ha fatto un pensiero di ottimismo sia creare un enorme canyon fra la realtà del cambiamento climatico e la percezione che ne ha la maggior parte della gente. Un messaggio ottimista ha portato alla compiacenza - “la gente dice che è fattibile, quindi probabilmente andrà tutto bene” - e sostenere le storie di successo ha convinto le persone che l'azione patetica e logora intrapresa dai governi sia finora sufficiente. Ho perso il conto del numero enorme di persone consapevoli e politicamente impegnate che ho incontrato che non hanno idea di quanto ci sia in gioco.

Potrebbe essere che se il momento di un movimento di massa non è adesso, non ce ne sarà nessuno. Il fatto è che nessuno sa come risolvere l'enigma come persuadere l'opinione pubblica perché chieda azione per il clima. Io non ho di sicuro le risposte. Ma penso che dobbiamo contemplare l'idea che qualcosa stia andando disastrosamente male – che forse è tempo di tornare sui nostri passi e ripensare il modo in cui parliamo del cambiamento climatico.

Sono successe due cose significative da quella audizione del comitato del Senato del 1988: la prima è l'Accordo di Parigi del 2015 per cercare di limitare il riscaldamento ad 1,5°C – una ricerca uscita questa settimana mostra che questo è ancora possibile. La seconda è che grandi aree delle superpotenze globali dominanti è stata decimata da due tempeste che fanno impallidire Katrina in meno di un mese. Le circostanze sono cambiate negli ultimi 30 anni: il cambiamento climatico è un dato di fatto ora ed abbiamo un obbiettivo specifico da perseguire, per limitare il danno che causerà.


”Dobbiamo mettere in crisi il silenzio pervasivo sul cambiamento climatico” George Marshall, l'autore di “non pensarci nemmeno”, parla ad un evento organizzato da The Guardian. 

Una nuova campagna potrebbe concentrarsi sulla necessità che i governi raggiungano l'obbiettivo dei 1,5°C, enfatizzando quanto sarebbero terribili le conseguenze se non lo facciamo. La gente non ha più bisogno di immaginare come sia il cambiamento climatico: possono vederlo nell'acqua del mare che ha avvolto le isole dei Caraibi, nelle case sommerse di Houston, nei bollettini di coloro che non sono riusciti a fuggire e si sono preparati a perdere tutto. In Gran Bretagna abbiamo visto l'acqua dell'alluvione inondare interi paesi; un pub che è diventato una via di transito per un fiume gonfio. E' così che si presenta una catastrofe alla porta di casa e forse è tempo che colleghiamo queste immagini al cambiamento climatico con tanto piglio quanto quello con cui l'industria dei fossili lo nega.

Potrebbe funzionare il linguaggio dell'emergenza? Non è mai stato provato con tutte le prove meteorologiche che abbiamo oggi e non abbiamo mai avuto un obbiettivo più chiaro ed unanime come quello concordato a Parigi. La sola cosa che so è che gli eventi degli ultimi mesi hanno cambiato i giochi e questo è il momento di cominciare a dibattere un modo nuovo di parlare del cambiamento climatico. Potrebbe essere che se non è questo il momento di un movimento di massa, non ce ne sarà mai uno.

• Ellie Mae O’Hagan è redattrice presso openDemocracy  ed è una giornalista freelance

sabato 21 ottobre 2017

LA MATTANZA DELLE ALBERATURE.

di Jacopo Simonetta



Nell'agosto del 2017, nel bel mezzo dell’estate più torrida e secca mai registrata, il sindaco di Firenze ha ordinato di abbattere parecchie centinaia di grandi alberi.   Senza entrare qui nei dettagli della polemica che ne è seguita, vorrei far osservare che si è trattato solo di uno fra gli infiniti esempi del genere.   Dopo un paio di secoli trascorsi a piantare alberi lungo strade e viali, in mezzo alle piazze e nei giardini, da almeno un paio di decenni si è diffusa e radicata la moda esattamente contraria.  Le amministrazioni pubbliche di ogni ordine e grado, oltre che la netta maggioranza dei proprietari di parchi e giardini si dedicano ad eliminare gli alberi con uno zelo proporzionale alle dimensioni delle piante: più sono grandi, più volentieri si abbattono.  Perfino l'attuale codice stradale prevede l’eliminazione delle alberature che, fino a qualche decennio fa, costituivano il vanto di molte strade. 

Il risultato è che il patrimonio arboreo urbano è tracollato e continua ad essere falcidiato giorno per giorno con uno zelo difficile da capire.  Vediamo quindi brevemente i principali motivi addotti per giustificare tutto ciò.

1 – Gli alberi sono pericolosi perché provocano incidenti.   Questa è semplicemente demenziale, non si è infatti mai visto un albero pararsi davanti ad un’auto in corsa, piuttosto sono gli automobilisti che vanno a sbattere contro gli alberi, soprattutto dopo aver bevuto assai.

2- Gli alberi sono pericolosi perché cadono.  Questo è vero, ma qualunque cosa sia posta in alto può cadere: pali della luce e del telefono, tetti e cornicioni, persiane, antenne, tegole e molto altro ancora; eliminiamo tutto ciò? A questo proposito, un punto importante è che ciò che conferisce stabilità ad un albero è prima di tutto la buona salute che è difficile da diagnosticare con certezza, mentre è molto facile da danneggiare.  Un campo in cui amministrazioni pubbliche e privati cittadini sono maestri.  Il metodo più diffuso ed efficace per minare irreversibilmente la salute di una grande pianta è capitozzarne i rami principali.   Anche lo scavo di trincee attraverso gli apparati radicali è un metodo in voga e molto efficace, mentre asfaltare e/o cementare a ridosso della pianta porta a risultati più incerti e differiti nel tempo.   Comunque, per buona misura si usano spesso tutti e tre i sistemi ed i risultati non mancano.   Spesso ciò deriva da grossolana ignoranza, ma talvolta viene fatto scientemente perché quando una pianta è gravemente malata è davvero pericolosa e nessuno può più opporsi al suo abbattimento.

3 – Gli alberi occupano spazio.  Spesso si eliminano infatti per ampliare carreggiate e parcheggi.   Oggi lo spazio fisico è spesso una risorsa limitata, specie in città, e nella competizione fra alberi e automobili vincono le seconde a mani basse.   Alla fine, è solo una questione di priorità.

4 - Gli alberi sporcano.   Con il termine “sporco” di solito ci si riferisce alle foglie secche, ma anche agli esudati che talvolta stillano durante l’estate od al guano degli uccelli.   Parlando di parchi e giardini, le foglie sono semplicemente quella cosa che è necessaria per mantenere la fertilità del terreno e, dunque, la buona salute del giardino stesso.   Certo è necessario toglierle da certe zone ed ammucchiarle in altre, ricordandosi che un parco od un giardino non sono la stessa cosa di un salotto e che il suolo è un sistema dinamico assai più complesso di un pavimento.  Un fatto che interessa a pochi, visti che il lastrone di cemento corrisponde al meglio al nostro concetto di “pulito”.    Anche se, magari, è coperto di polveri cancerogene.
Parlando invece di strade e piazze, la faccenda effettivamente si complica perché è necessario spazzare le foglie prima che intasino le fognature.   Un fatto che ci rimanda al punto seguente.

5 – Gli alberi costano.    A seconda di dove e come sono, può essere necessario potarli e, comunque, è necessario raccogliere le foglie cadute.   Dunque che costano è vero, ma se si scelgono le piante giuste per i posti giusti, sono assai poco dispendiosi, mentre danno un contributo insostituibile per mitigare le ondate di calore, ridurre le polveri sottili e rendere vivibili anche i quartieri più degradati. Sono molti gli studi che hanno cercato di quantificare i vantaggi delle alberature urbane ed i risultati sono tanto impressionanti quanto inutili. Infatti, per quanto i vantaggi possano essere numerosi, sui bilanci pubblici e privati figurano in modo molto indiretto e complicato, mentre le spese per spazzare le strade, pulire gli scoli eccetera sono dirette e ben evidenti. Come nel caso delle esternalità negative, che pure stanno falcidiando intere economie anche le esternalità positive non riescono a penetrare le meningi di amministratori ed amministrati.

6 – Gli alberi danneggiano le strade ed i marciapiedi. Questo a volte accade per difetto di chi ha costruito strade e marciapiedi troppo a ridosso delle piante, ma talaltra deriva da una scelta sbagliata degli alberi da usare.  Per esempio, si sa benissimo che il pino domestico solleva l’asfalto anche a parecchi metri di distanza dal tronco.   Ci sono casi in cui può quindi essere necessario sostituire le piante.  Cosa che effettivamente talvolta viene fatta, solitamente piantando qualcosa che resterà certamente piccolo e poco frondoso.  E se poi non sopravvive al trapianto, tanto di guadagnato (v. punti precedenti).

E dunque? Come per molti altri aspetti connessi con l’insostenibilità e la corsa collettiva verso il futuro peggiore possibile, l’unica cosa che è possibile fare è proteggere gli alberi propri, anche se questo significa assai spesso avere grane coi vicini.  E se le grane approdano in sede legale, sappiate da subito che sempre e comunque l’albero perde.

Per quanto riguarda le alberature pubbliche, le poche e spuntate armi a disposizione sono i consueti comitati di piantagrane e la ricerca spasmodica di un cavillo legale cui appigliarsi.  Niente di risolutivo, s’intende, ma serve a guadagnare tempo, sperando che nel frattempo qualcosa cambi. Talvolta succede e quindi vale la pena provarci.




domenica 15 ottobre 2017

In che modo funziona la Natura: quanto è comune la curva di Seneca? Il discorso di Ugo Bardi alla Summer Academy del Club di Roma a Firenze

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR


Ugo Bardi alla Summer Academy del Club di Roma a Firenze, settembre 2017.


Il mio discorso alla Summer Academy del Club di Roma è stato più che altro una presentazione del mio ultimo libro “The Seneca Effect” (Springer 2017) . Di fatto, naturalmente, un libro contiene molte più cose di quante se ne possano dire in un discorso di 40 minuti. Quindi ho cercato di concentrarmi sull'idea che il comportamento che chiamo “curva di Seneca” sia molto comune, persino universale. Sotto potete vedere la curva di Seneca: le cose salgono lentamente ma collassano rapidamente, come ha detto per la prima volta il filosofo Romano Seneca duemila anni fa. Potete vedere la stessa curva anche nella maglietta che indossavo alla Academy.


Forse avete sentito il vecchio detto latino “Natura non facit saltus” (La natura non fa salti), che significa che le cose cambiano gradualmente, non all'improvviso. Potrebbe essere vero in molte circostanze ma, in pratica, ma è del tutto normale che la Natura accumuli potenziali energetici (come quando gonfiate un pallone) e poi li rilascia all'improvviso (come quando bucate un pallone). Questo è il tema della copertina della versione tedesca del mio libro.

Ci sono delle ragioni per le quali la Natura si comporta così, ma l'argomentazione che ho portato alla scuola non è stato tanto sul perché la curva sia così comune, ma sul fatto che gli esseri umani normalmente non ne sono consapevoli. Infatti, il nostro pensiero spesso determinato dall'idea che le cose continueranno ad evolvere nel modo in cui si sono evolute fino a quel punto. Pensate solo alla crescita economica e noterete in che modo gli economisti si aspettano che questa continui a crescere per sempre. Non c'è bisogno di dire che l'economia è uno di quei sistemi complessi che sono più vulnerabili al collasso di Seneca.

Ho quindi provato a sottolineare che la comprensione  che la Curva di Seneca esiste ed è comune è una scoperta recente. Anche se Seneca lo aveva capito per intuizione già 2000 anni fa, nella sua forma moderna ha meno di un secolo. E' stata proposta per la prima volta da Jay Forrester negli anni 60 ed è stata consacrata nello studio “I limiti dello sviluppo” del 1972, anche se il termine “Effetto Seneca” non è stato usato.

Durante il mio discorso, ho mostrato questa immagine per evidenziare in che modo le nostre idee sul percorso dei sistemi complessi si sono evolute nel tempo.


Vedete qual è l'idea moderna di “overshoot” (e del collasso conseguente). Malthus non lo aveva capito. Nonostante venga spesso accusato di catastrofismo, non poteva prevedere il collasso sociale; gli mancavano gli strumenti intellettuali necessari. Era un ottimista! Oggi, c'è questo concetto. Sappiamo che i sistemi complessi tendono non solo a declinare, tendono a collassare. Ma questa percezione manca completamente dal dibattito pubblico.



Quando si fa menzione del collasso sociale, ci sono due reazioni possibili. La più comune è che una cosa del genere non succederà mai. Poi, se si riesce a convincere le persone che è possibile, questa fanno tutto quello che possono per mantenere in piedi il sistema, a prescindere da quello che ci vuole. Non si rendono conto che quando si supera la capacità di carico del sistema, bisogna tornare indietro, in un modo o nell'altro. E più si cerca di stare al di sopra del limite, più veloce e severo sarà il rientro. Quello che si deve fare è rendere più leggero il collasso, seguirlo, non cercare di fermarlo. Altrimenti sarà peggio.

Così, sembra che qui ci troviamo di fronte ad un blocco culturale. Forse non lo supereremo mai, o forse sì, chi lo sa? Nei tempi antichi, l'Imperatore Marco Aurelio, un filosofo stoico proprio come Seneca,  aveva ben chiaro questo concetto. Sapeva che tutto nel mondo è impermanente, compreso l'Impero Romano. Essendo un uomo virtuoso, ha fatto tutto ciò che era in suo potere per fare il suo dovere come Imperatore. Ma ha riconosciuto i suoi limiti, ed è questo che ha scritto nelle sue “Meditazioni”.



Dobbiamo anche riconoscere i nostri limiti. Seguire il cambiamento, non cercare di fermarlo. La Natura sta cambiando tutte le cose che vediamo e con la loro sostanza farà cose nuove per fare in modo che il mondo sia sempre nuovo. E' così che funziona la Natura.


domenica 8 ottobre 2017

Una religione chiamata Economia




Post di Michele Migliorino (pubblicato anche sul blog "Appello per la Resilienza")

Fa parte delle narrazioni collettive l'idea che le religioni stiano lasciando il passo ad uno stadio umano più evoluto. La scienza e la tecnica si emancipano da ogni discorso mitico e religioso nella convinzione che a guidarle sia solo la razionalità. Il Dio Ragione ha soppiantato il vecchio Dio.

Nietzsche, oltre un secolo fa, avvertiva che Dio è morto e che noi l'abbiamo ucciso. Oggi uno spettro si aggira per le nostre società: è il nichilismo che segue alla sua morte. In che cosa consiste? Secondo Nietzsche nella svalutazione di tutti i valori che fino ad ora sono stati sacri e sui quali è stata fondata la civiltà occidentale.
 «Ciò che racconto è la storia dei prossimi due secoli. Descrivo ciò che verrà, ciò che non potrà più venire diversamente: l’avvento del nihilismo. Questa storia può essere raccontata già oggi, poiché qui è all’opera la necessità stessa. Questo futuro parla già con cento segni, questo destino si annunzia dappertutto: tutte le orecchie sono già ritte per questa musica del futuro. Tutta la nostra cultura europea si muove già da gran tempo con una tensione torturante che cresce di decennio in decennio, come se si avviasse verso una catastrofe inquieta, violenta, precipitosa; come un fiume che vuole sfociare, che non si rammenta più, che ha paura di rammentare» (Nietzsche, Frammenti Postumi, 1887-1888) 
Non è necessario che un Dio sia posto come trascendente per essere denominato come tale. Ciò che  troviamo oggi come conseguenza della secolarizzazione è un nuovo dio, immanente: l'Economia. Niente più "ascesi intramondana" e volontà di salvezza poichè oikonomos, (in greco, la "cura della casa"), è divenuta l'unica preoccupazione. Questa esigenza è cresciuta già nei secoli che precedono la morte di Dio, fin dal Rinascimento, con l'ampliarsi del commercio mondiale, per divenire una macchina planetaria di approvvigionamento e distribuzione che prevede miliardi o addirittura trilioni di transazioni monetarie informatizzate al secondo.

Perché l'Economia è un Dio? Perchè essa ha preso il posto dei vecchi valori e perché la utilizziamo per colmare il vuoto lasciato dal nichilismo. Molto semplicemente, il nichilismo è giunto poichè un valore fondamentale è stato superato: l'aldilà. Oggi ci troviamo inconsciamente nella situazione di non reperire più un senso nell'esistenza poichè per due millenni (ma forse molto di più) abbiamo creduto che non vi fosse un senso in questa vita, e che quindi questa dovesse avere necessariamente una sua "copia originale" da un'altra parte, in un mondo trascendente. Da Platone al cattolicesimo, questa è una matrice fondamentale con cui dobbiamo fare i conti quando parliamo della nostra "cultura".

Ciò che è straordinario è che non vogliamo "vedere" che cosa abbiamo prodotto! E' per questo che ci affanniamo e corriamo da tutte le parti: non possiamo ancora accettare che non ci sia qualcosa dopo la morte! La nostra condizione storica ci obbliga piuttosto a capire che cosa significa un'esistenza mortale e finita. In fondo siamo convinti che non vi sia alcun senso e che dunque tanto vale "vivere al massimo"; arraffare ogni momento di questa effimera esistenza; non perdere nessuna opportunità perchè "ogni lasciata è perduta".

L'economia è questo "correre" in un girone infernale - una crescita infinita su un pianeta finito - svincolato da ogni limite che la ostacoli -  perchè se non c'è senso "tutto è permesso" (Dostojevski) e non ci saranno conseguenze. Nessun Dio giudicatore che ci aspetta per valutare meriti e peccati. Tuttavia, se non c'è alcun senso non varrebbe la pena di farla finita subito? Non sarebbe più lungimirante?
Primo, per i mortali non nascere è meglio di tutto;
ma nati, quanto prima varcare le soglie dell’Ade. (Esiodo)
L'economia opera come una gigantesca rimozione. E' come se stessimo cercando di fabbricare il senso stesso tramite le nostre attività quotidiane. Infatti più siamo impegnati più la vita ci sembra avere senso. Quando siamo in movimento - come le merci - ci dimentichiamo di quel rumore cosmico di fondo, di quella mancanza che talvolta ci assilla domandando: ma che senso ha tutto questo?

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Per quanto le cose vadano male e c'è la crisi in pochi saranno disposti a dire che l'economia non è una buona cosa. Per questo ci crediamo ciecamente, non la mettiamo in discussione, proprio come una religione con il suo Dio. Invece del valore dell'aldilà, noi abbiamo il Dio-denaro che ci permette di fare qualunque cosa, o almeno così crediamo. Tutto consiste nel credere in qualcosa - per questo è difficile liberarsi del termine religione in senso lato.

Ma perchè l'economia non è una buona cosa? (ho già cominciato delle riflessioni qui) Perchè non è possibile creare ricchezza per tutti. La ricchezza è qualcosa che può appartenere solo ad alcuni. Io posso essere ricco solo se tu sei povero; la ricchezza è una relazione fra due termini: ci deve essere povertà perchè vi sia ricchezza.

Lo si vede bene per la faccenda delle disuguaglianze. Sebbene il divario fra ricchi e poveri continua a crescere da decenni, il tenore medio di vita dei poveri è aumentato. Vittoria del capitalismo? Si, infatti anche qui la nostra religione ci protegge da ogni eresia: dobbiamo riformare il sistema economico, ridistribuire la ricchezza, monitorare i grandi capitali, porre nuove leggi che limitino le multinazionali! Così salveremo il terzo mondo, dobbiamo promuovere lo sviluppo dell'Africa! Ecco allora giustificate le guerre per esportare la democrazia, la quale instaurerà un governo che garantirà le condizioni affinchè anche loro possano avere accesso alla ricchezza. 

E lo si vede perchè dove passa Economia c'è distruzione: di foreste, di mari, di specie viventi, di noi stessi e delle nostre infinite culture disseminate per il pianeta. Il realismo ormai imporrebbe di mettere l'Economia nel cestino della storia per provare a vedere se è possibile creare società in modi che non implicano lo scambio di risorse ed energia in una maniera così abietta.

Sarebbe ora di diventare blasfemi verso questa religione, ma si sa, il fenomeno della "folla" è arduo da superare, poichè è il meccanismo stesso della nostra evoluzione (secondo Renè Girard). Temiamo di perdere i nostri possessi e ci temiamo a vicenda; ci è difficile andar contro ciò che fanno gli altri. Ci è estremamente difficile rigettare ciò che ci fa vivere: Economia. Ma se ciò che oggi ci fa vivere fosse ciò che domani ci farà morire?


mercoledì 4 ottobre 2017

Tre Ecologisti Italiani (III): Luigi Sertorio





Gli altri due post di Silvano Molfese sugli ecologisti italiani sono quello su San Francesco, e quello su Italo Calvino

di Silvano Molfese


Concludo questa trilogia, in ordine cronologico, con Luigi Sertorio, ecofisico,  che nel 1990 ha pubblicato il libro “Thermodinamics of complex systems” ed ha continuato con altri lavori occupandosi di come l’uomo, con questa organizzazione produttiva, dotato di protesi di potenza e di abilità sempre più potenti, si interfaccia con la biosfera.

A tal proposito Sertorio ci ricorda che:

“La Natura non è benigna, non guarda con tenerezza i figli incoscienti e non regala loro consigli di saggezza. Opera sull’uomo perché l’uomo è un organismo appartenente alla biosfera e obbediente alle sue leggi. Sta all’uomo capire per tempo queste leggi. Se lo stato, l’economia non capiscono, ci sarà la collisione con la barriera della dinamica organica violata. E lì si vedrà chi è intelligente.” (*)
Luigi Sertorio, con armonioso rigore scientifico, ha dato a mio avviso una definizione fondamentale di biosfera.

Riporto interamente tale definizione ripresa da  “Storia dell’incertezza”,  pagine 96 e 97.
Biosfera

La biosfera terrestre è una macchina fotonica sostenitrice di informazione. Questa definizione è pensata per essere generalizzata al contesto astrofisico, cioè al di fuori del caso particolare di cui noi esseri umani siamo parte. Cerchiamo di spiegare come è fatta questa macchina, cosa esegue, e come si definisce il suo funzionamento stazionario.

1. Flusso di fotoni provenienti da una stella e dotati di lunghezza d'onda tale da mettere in azione il processo di formazione di molecole complesse partendo da molecole prelevate dall'ambiente inorganico. Questa è l'interfaccia fotosintetica che connette la stella alla biosfera.

2. Costruzione di una moltitudine di organismi caratterizzati da altre forme di metabolismo e di attività esterna.

3. Dinamica interattiva fra tutti gli organismi dotati di tempi propri di permanenza diversissimi (per esempio quattro ordini di grandezza) ma brevi rispetto alla durata di una stella longeva come il Sole, quindi con tempi di morte e di nascita distribuiti nel segmento temporale di esistenza della biosfera madre che è la realizzazione di permanenza lunga (altri sei ordini di grandezza).

4. La morte degli organismi rilascia molecole inorganiche nell'ambiente inorganico.

5. Il prelievo e il rilascio devono formare ciclo. Questo implica prima di tutto che il set delle molecole entranti deve coincidere col set delle molecole uscenti, che chiameremo molecole asintotiche. Ciò posto, ciclo vuol dire che il flusso molecolare asintotico entrante deve bilanciare il flusso molecolare asintotico uscente. Solo in tal modo la biosfera madre può sussistere.

6. Quando la biosfera funziona in regime stazionario la potenza del flusso di fotoni entranti nella fotosintesi caratterizzata dalla temperatura della stella, deve bilanciare la potenza in uscita, caratterizzata dalla temperatura media del pianeta ospitante.

L’insieme di questi sei punti definisce la biosfera come macchina perfetta la cui potenza è in equilibrio con l'ambiente inorganico. Alla base di tutto c'è l'esistenza della stella Sole e del pianeta Terra. Stelle e pianeti sono realizzazioni di permanenza dentro la dinamica cosmologica. La coppia stella-pianeta fornisce l'ambiente inorganico dotato di permanenza. Il funzionamento stazionario della macchina biosfera specifica in che modo la biosfera può essere permanente. 

La vita è elaborazione di informazione. La complessità delle macro-molecole e delle loro interazioni - è il supporto dell'informazione. Scrivere e trasmettere informazione vuol dire operare su stati complessi, e la complessità organica è la massima conosciuta. È ovvio che qui si parla di informazione analogica, non digitale.

La permanenza della biosfera implica il concetto di autoconsistenza.  Autoconsistenza vuol dire che l'interazione di tutti gli organismi caduchi si organizza in modo tale da preservare la vita del super organismo biosfera. Permanenza e informazione sono indissolubili: è ciò che chiamiamo armonia della Natura.”

(*)  Luigi Sertorio .  La mappa del denaro –  capitolo 6,  paragrafo La punizione
      della natura - in corso di pubblicazione.