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martedì 19 febbraio 2013

Il Canto del Gallo

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR





Guest Post di Antonio Turiel

- In fin dei conti - dico - se la Francia ha invaso il Mali è per l'uranio, lo sai, no?
- Certo che si. Lo sanno tutti

Cadeva la notte, fredda, piovosa e scura, sopra Bordeaux. Mi ritrovai a guardare il mio amico, e una volta capo. Lui guardava per terra, poi proseguì con voce tranquilla

- La Francia ha 89 centrali nucleari, 59 di loro sono commerciali. L'83% dell'elettricità è di origine nucleare. Non possiamo fare a meno dell'uranio.

Non ho detto niente e abbiamo continuato a camminare. Sono vissuto per diversi anni in Francia e ho capito allora come interpretare questa curiosa dimostrazione di cinismo e pragmatismo con il quale i Francesi alla base accettano certe forme di azioni barbariche che il loro governo commette in nome de “La France” .

                                                                           * * * * *

Da alcune settimane la Francia è in guerra. Diverse migliaia di soldati e decine di mezzi blindati sono stati inviati rapidamente al fronte di battaglia in Mali. Obbiettivo: evitare l'avanzata del fronte islamico che si è ribellato nel nord del paese dopo la caduta di Gheddafi in Libia e il suo timore è che il paese si trasformi in un nidi della Jihad che minacci il mondo occidentale. O questa almeno è, grosso modo, la spiegazione ufficilale.

Gheddafi si è mantenuto al potere grazie ad unità mercenarie formate a partire dalle tribù Tuareg del deserto e, alla caduta del dittatore libico, questi mercenari, con addestramento e attrezzatura militare, si sono rifugiati dai propri cugino della sponda del Mali. In Mali e in Niger da molti anni, periodicamente, si sono ribellati gruppi armati che rivendicavano migliori condizioni di vita per i Tuareg; questa volta, tuttavia, le loro capacità militari erano sensibilmente maggiori. In poco più di un anno, i Tuareg hanno preso il controllo di due terzi del paese, senza che l'esercito del Mali, debole e corrotto, potesse fare granché per fermarli: Che il problema abbia il carattere di guerra civile lo evidenzia anche che non poche unità dell'esercito del Mali siano passate dall'altra parte e mostra anche che il governo del Mali non ha l'appoggio incondizionato della sua popolazione. Di fatto, prima che la Francia cominciasse i bombardamenti l'11 gennaio entrambe le fazioni avevano concordato un cessate il fuoco e stavano negoziando un accordo di pace. Tuttavia, la Francia ha preteso di presentare il conflitto interno come una battaglia per la democrazia è contro l'integralismo islamico ed ha organizzato una coalizione di paesi africani come forza di difesa per non apparire come la vecchia colonialista che interferisce con gli affari della sua ex colonia. Ha persino ottenuto una risoluzione dell'ONU per giustificare l'intervento. L'appoggio dei suoi alleati, tuttavia, è stato tiepido. Più di qualche parola di appoggio degli Stati Uniti e alcuni aerei da carico dei suoi alleati europei, la Francia si ritrova da sola a lottare in Mali, mentre le forze della coalizione africana non arrivano. Il fatto è che la Francia ha cominciato a dispiegare le proprie truppe senza aspettare nessuno, ritrovandosi di fronte alla possibilità che il governo del Mali cadesse che i gruppi Tuareg andassero al potere.

Cosa spinge in questo modo la Francia in Mali? Non è né il petrolio né il gas, materie prime delle quali la quantità potenzialmente sfruttabile nel paese non sono significative e che si possono ottenere più facilmente in altri luoghi. Non sono nemmeno i metalli preziosi dei quali il paese è ricco. No. Ciò che spinge la Francia ad agire in questo momento è l'uranio, in una doppia prospettiva, a breve e a lungo termine. A lungo termine, lo sfruttamento delle miniere di uranio del Mali sarà fondamentale per saziare la fame gallica del materiale sopra il quale fa perno tutto il suo modello industriale e del quale vanno spesso orgogliosi, visto che considerano l'energia nucleare autoctona (nonostante che il combustibile di base, l'uranio, si prenda fuori dal paese). Le quantità di uranio sono significative ma non grandiose (si pensa che a Falea ci siano 5.000 tonnellate di uranio naturale, l'equivalente di 10 ricariche – una ogni 18 mesi – di una centrale nucleare di 1 GW) e che addirittura non sia finita la fase di esplorazione. Tuttavia, queste miniere future saranno imprescindibili un domani. A breve termine, tuttavia, la cosa per cui il Mali è cruciale è per il trasporto dell'uranio del Niger – da non confondersi con la Nigeria. Questo sì è fondamentale per l'industria francese: un terzo dell'uranio che consuma la vecchia metropoli proviene dal territorio del Niger. E le risorse di uranio del Niger sì che sono importanti, fra le maggiori al mondo:


La Francia ha subito molti contrattempi in Niger che, come il Mali, è una sua vecchia colonia. Neglia anni, i governi del Niger sono stati docili ed hanno permesso lo sfruttamento del proprio uranio a basso prezzo e senza che si dovesse assumere i danni ambientali – la maggioranza delle miniere è a cielo aperto – che questo generava, degradando le condizioni di vita del popolo del Niger, che è stato sottomesso “manu militari” quando è stato necessario. Ciò ha generato rivolte frequenti, scioperi e difficoltà crescenti per lo sfruttamento delle miniere a causa delle persecuzioni armate da parte dei gruppi separatisti vicino alla frontiera col Mali. Di fatto, alcuni esperti opinano che dietro alla precipitazione dell'azione francese ci sia la necessità di rafforzare la sicurezza delle miniere e i fatti lo confermano direttamente.

Alle difficoltà di sfruttare l'uranio del Niger, da qualche anno si è aggiunta una competizione sul campo con la Cina, che ha ottenuto alcune concessioni minerarie in Niger e che espande rapidamente le sue operazioni in quel paese. Incapace competere con un paese tanto potente, la compagnia francese Areva ha optato per cercare collaborazione in alcuni progetti minerari, anche nel tentativo di abbassare i costi. Questo perché la risorsa di cui ha tanto disperatamente bisogno la Francia è sempre più scarsa, cara e pericolosa da sfruttare e in più adesso la deve condividere.

Tutta questa penuria dei nostri cugini d'oltralpe sta in un contesto generale su scala mondiale per nulla lusinghiero: l'uranio sta diventando raro e scarso. Al momento, si sta verificando una relativa stagnazione della sua estrazione: secondo i dati della Associazione Nucleare Mondiale il 2012 è il secondo anni di seguito durante il quale l'estrazione mondiale di uranio è diminuita (54.660 tonnellate nel 2010, 54.610 nel 2011 e 5.221 nel 2012). Anche se tali oscillazioni nella produzione sono frequenti nei dati storici ed il disastro di Fukushima ha diminuito lievemente la domanda di uranio, continua ad esserci una differenza considerevole fra l'uranio estratto e quello consumato, il quale è stato finora coperto riusando l'uranio delle testate nucleari russe smantellate, secondo il programma Megatons to Megawatts. Sfortunatamente, il programma scade proprio quest'anno, il 2013, e non verrà rinnovato, quindi ci si aspetta un deficit di uranio e si preconizza uno scenario di problemi di fornitura piuttosto serio; forse l'arrivo precipitoso del temuto picco dell'uranio. Ed è in questo mercato sempre più teso dell'uranio che la Francia si sta giocando la sua raison d'être.

Questa guerra della Francia è un'altra delle guerre per le risorse, simile ad altre precedenti e ad altre che la seguiranno. La sola cosa che la differenzia e sicuramente a quelle che seguiranno è il grado di disperazione dell'aggressore. La Francia industriale che è risorta con forza nel ventesimo secolo, ora agonizza. Il suo stato finanziario non è così buono come si pensa e probabilmente sarà preda degli stessi avvoltoi che non hanno smesso di osservare la Spagna, anche se adesso si finge il contrario. La Francia si gioca una parte importante della sopravvivenza del suo modello industriale nell'assicurarsi la fornitura di uranio del Niger e del Mali. Se ora fallisse, il vacillante tessuto economico e industriale francese non potrà permettersi un'altra guerra. Questa guerra è il canto dell'orgoglioso gallo francese. Forse l'ultimo.

Saluti, AMT

martedì 16 luglio 2013

Un futuro incerto (V): la meta è dove stai andando

Di Antonio Turiel
Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR




[Le persone e le situazioni che appaiono in questa storia sono del tutto inventate. Qualsiasi riferimento a persone o fatti reali sarà sempre un pura coincidenza]

Nonostante fosse solito fare lunghe passeggiate sui monti vicino a Zurigo, l'ascesa della montagna fu dura e penosa per un Gianni nel bel mezzo della cinquantina. Ai suoi piedi poteva vedere Losanna e in lontananza Ginevra. Ginevra era perduta, le truppe francesi sarebbero entrate per questo passaggio naturale fra le Alpi e la catena del Giura, questo era chiaro.

Gianni saliva con un plotone di ricognizione che si era appostato su quella montagna. Voleva vedere coi propri occhi cosa dovevano fronteggiare. Al capitano in carico non fece molto piacere portare con sé un civile, ma Gianni aveva un'autorizzazione del Ministro e il capitano, semplicemente e disciplinatamente, rispettò l'ordine.

Dall'alto della montagna, Gianni poteva vedere una grande estensione della pianura centrale della Francia. Con l'aiuto di un binocolo identificò immediatamente dove si era concentrato l'esercito francese. Gli parve che l'insieme di truppe presenti fosse piuttosto scarso. Pensavano forse di attaccare anche dal lato tedesco?. Ma la Francia aveva sottomesso solo la parte nord della vecchia Germania, quindi per arrivare alla Svizzera per questa strada avrebbe dovuto attraversare una terra ostile. Non sembrava molto verosimile. D'altro canto Davide, che era sicuramente a capo delle truppe, non sapeva nulla di strategia militare (alla fine dei conti era solo un imprenditore e prima era stato uno scienziato) e confidava ciecamente nella superiorità meccanica. Tutto faceva pensare che avrebbe tentato di entrare direttamente in Svizzera via Ginevra, costeggiando il lago Lemano.

L'esercito popolare svizzero era formato da uomini forti e orgogliosi, amabili nel quotidiano, ma tenaci quando ce n'era bisogno. Tuttavia, quel clima tanto strano che si era venuto ad instaurare col passare degli anni, faceva sì che molte delle sue vecchie strategie non avessero più senso. Per esempio, gli inverni raramente erano rigidi, quindi non potevano più contare sul Generale Inverno; di fatto, Davide li stava assalendo in pieno inverno. Gianni vedeva chiaramente che i Francesi li avrebbero schiacciati. Tuttavia, dal lato francese stava succedendo qualcosa. Era già passato un giorno dalla scadenza dell'ultimatum per la consegna di Gianni ed ancora non avevano iniziato l'assalto. Qualcosa di raro in una persona arrogante come Davide.

Con l'aiuto reticente del professor Strauss, Gianni riuscì a convincere il Governo svizzero a sollecitare la Francia per un incontro in terra neutrale delle due delegazioni, “come ultimo tentativo di evitare una guerra che nessuna delle due nazioni vuole”. L'emissario fu inviato all'accampamento dei francesi e, sorprendentemente, la risposta fu positiva. L'unica condizione che imposero i francesi fu che Gianni doveva partecipare alla delegazione svizzera. Nonostante le perplessità una tale richiesta causò, sia Gianni sia il Governo acconsentirono. Si accordò che ogni delegazione sarebbe stata costituita da 20 delegati, 10 dei quali sarebbero stati soldati armati. La riunione avrebbe avuto luogo fuori Ginevra, a circa 40 chilometri dall'accampamento francese, e i delegati francesi avrebbero dovuto percorrere gli ultimi 4 chilometri a piedi, mentre i loro veicoli avrebbero dovuto ritirarsi. Gianni non si sorprese di vedere il Generale Rosi in testa al corteo francese. Dopotutto, se c'era qualcosa che non mancava a Davide Rosi era l'audacia.

Il Governo svizzero aveva posto alla testa della propria delegazione il Segretario di stato della Difesa, ma con notevole maleducazione Davide Rosi lo ignorò e si diresse verso Gianni:

- Ci rivediamo, Gianni – gli disse.

- Non mi aspettavo nulla di diverso, Generale Rosi.

- Andiamo – disse Davide stringendo le spalle e aprendo i palmi delle mani – non lasciarti impressionare dal mantello e dai galloni. Sono ancora Davide Rosi, il tuo vecchio studente di dottorato.

- E' da molto tempo che non ho nulla da insegnarti e ciò che hai imparato io non te l'ho mai insegnato – Gianni ponderò il su disprezzo per non attrarre ulteriori mali sulla nazione che lo ospitava e proseguì: - Suppongo che vuoi che mi consegni. Se mi assicuri che non attaccherai la Svizzera rientrerò con la vostra delegazione.

Gianni era stanco. Più che vecchio si sentiva stanco e disgustato dal mondo. Succedesse quello che doveva succedere, consegnarsi gli sembrava un prezzo accessibile se avesse ottenuto che quella bestia maledetta non profanasse l'ultimo baluardo del sapere e della civiltà che rimaneva in Europa.

- Mi sembra stupendo che torni con noi, Gianni. Di fatto nella repubblica tutti ti riceveranno con le braccia aperte. - Il tono di Davide era caldo, paterno, ma finto – Inoltre, è la cosa migliore per la tua sicurezza personale.

- Cosa vuoi dire? La mia vita non è in pericolo in Svizzera... - Gianni guardò direttamente negli occhi di Davide... - o forse sì. Non ci posso credere. Non ci posso credere! Pensate di invadere la Svizzera comunque!!

Avevano parlato in italiano, lingua che nella delegazione svizzera conosceva solo Gianni, ma l'ultima frase Gianni la pronunciò in francese. Davide sorrise ed aprì le braccia, fingendo di mostrarsi come una persone indulgente e continuò in francese, un francese ora fluente e sicuro.

- Andiamo, andiamo, non drammatizziamo! Non c'è motivo che ci sia un'invasione nel senso stretto della parola. E' ovvio che l'esperimento svizzero non può proseguire oltre, coi tempi che corrono. La Grande repubblica ha dei progetti per la Svizzera, dei quali la nuova provincia elvetica ne avrà dei benefici.

Gianni non credeva alle sue orecchie. Davide aveva insistito perché prendesse aperte alla delegazione svizzera perché pretendeva di averlo in suo potere prima che cominciassero le inevitabili cannonate. Non se ne lasciava sfuggire una, il ragazzo era un vero falco negli affari. Il Segretario di Stato era rosso d'ira, ma nonostante questo parlò con educazione. In modo aspro, s', ma educatamente:

- Lei non può un giorno dire che vuole solo l'estradizione del professor Palermo e il giorno dopo dirci che ci sottometterete comunque! Che razza di paese siete? Non potete fare questo! Gridò a Davide.

- Sì, sì che possiamo – Davide rispondeva con calma – Siamo la Repubblica. Noi possiamo tutto.

- ... finché non finisce il magnesio – aggiunse Gianni.

Davide lanciò uno sguardo fulminante a Gianni, al che il professore si mise a ridere:

- Andiamo, ragazzo, andiamo, credi che abbia rivelato un segreto? - e non poté evitare di afferrare la spalla di Davide, in un gesto di umiliante familiarità, come se fossero un paio di amici che si raccontano barzellette sporche in un'osteria – Credi che il resto del mondo sia idiota? Qui si sono resi conto della farsa da molti anni e non c'è stato bisogno che dicessi loro nulla. Hanno semplicemente fatto due più due. Sei abituato ad essere circondato da asini che pensi che tutto il mondo ragli – e tolse la mano dalla spalla di Davide due secondi prima che questi la spostasse con forza.

Davide ignorò la provocazione di Gianni e si concentrò in ciò che voleva dire. Guardò il Segretario di Stato:

- La Svizzera ora ha un clima più benevolo che altre parti d'Europa; le estati non sono tanto calde e le precipitazioni sono ancora abbastanza stabili. La Svizzera è chiamata ad essere il granaio d'Europa, il Granaio della Grande Repubblica. Non avete scelta, signor segretario. Potete sottomettervi o essere invasi, ma il fatto è che il vostro futuro passa per forza attraverso la Repubblica.

Nessuno ebbe l'animo di contraddire le spacconate di quell'uomo. Nonostante mantenesse un buon livello tecnico e fosse ben arroccato, l'esercito svizzero non era all'altezza di quello della Repubblica. Sì, questa invasione non sarebbe stata una parata militare come quelle precedenti. L'esercito francese avrebbe annichilito quello svizzero, sì, ma subendo perdite significative. Tutti gli astanti lo sapevano e forse pensando a queste perdite inevitabili ed al costo enorme dell'invasione, pensò Gianni, ecco perché la Repubblica accettava di negoziare la resa al posto di schiacciare com'era sua abitudine.

- Sai una cosa Davide? - disse Gianni all'improvviso lasciando da parte il trattamento da generale – Dici di essere stato un mio studente, vero? Allora ti darò un'altra lezione oggi. Ti ricordi di quando qualche anno fa discutevamo di ritorno energetico, di EROEI?

Davide annuì lievemente. Non vedeva chiaramente dove voleva andare a parare Gianni.

- Non ti sei reso conto che la guerra non è altro che un sistema su grande scala per ottenere risorse? Risorse e, più in particolare, energia. La guerra è un sistema di generazione di energia in più. Di un'energia che non è rinnovabile, perché una volta che impoverisci un paese non puoi più continuare il suo sfruttamento. E, siccome succede con tutti i sistemi di generazione di energia non rinnovabile, il suo EROEI tende a diminuire col passare del tempo. Già lo sai, è quella che gli economisti chiamano “la legge dei ritorni decrescenti”.

Davide lo guardava attonito.

- Guarda – proseguì Gianni – a quello che è successo alla repubblica con le sue guerre di conquista. All'inizio ha invaso i paesi più deboli e con grandi riserve di magnesio, cosa che ha permesso alla Repubblica di espandersi con rapidità. Ma, una volta che i paesi più redditizi dal punto di vista energetico sono stati occupati e spogliati avete dovuto cercare altri paesi, meglio difesi, più complicati da invadere per la loro orografia ed altri fattori, e con minori depositi di magnesio perché avevano conservato un sistema industriale funzionale per più tempo. Il vostro rendimento energetico è crollato, l'EROEI è diminuito. Ed è successo nel momento peggiore, quando la “massa” della Repubblica era aumentata di molto ed era necessario mantenere un influsso maggiore di nutrienti. Così, vedi, Davide: nemmeno “con altri mezzi” - disse evocando la conversazione dell'ultima volta che si erano visti al CRET – si può sfuggire alle leggi della Termodinamica. La tua impresa sta soccombendo perché non hai capito le mie lezioni, perché nonostante il tuo talento sei stato un cattivo studente. Guardati e renditi conto del fatto che sei diventato un mostro cieco e brutale; era questo quello che volevi fare della tua vita quando sei scappato da Roma con me?

- E tu, esimio professore? - Davide rispose tagliente, al contrattacco; il discorso del professore lo aveva colpito, visto che non aveva mai considerato la termodinamica della guerra – cos'è che hai fatto tu? Ti sei chiuso nella tua torre d'avorio e giocare con le tue macchinette e coi tuoi progetti inutili mentre il mondo intorno a te si sfaldava. Non sei stato capace di vedere che il cerchio intorno a noi si stringeva e quando ti sei preparato per scappare hai pensato solo a te. In un certo senso, io non ho fatto altro che scappare da quando siamo scappati da Roma dodici anni fa. E tutto questo è stata colpa tua! - in lontananza si sentì un tuono nello stesso momento in cui Davide sottolineava l'ultima parola, quel “tua” pieno di rancore e rimprovero.

“Dalla porta dalla quale uscì la carità entrò la peste”, penso Gianni. Ma il rimprovero di Davide era giusto, dopo tutto. Sì, era stato preso dalle sue ricerche senza rendersi conto che faceva parte di una società che soffriva. Quando in Italia i giovani uscirono per le strade per protestare per la mancanza di lavoro, quando lo fecero gli anziani per lamentarsi della diminuzione delle pensioni e degli aiuti, quando ampi settori della società protestarono contro i tagli all'educazione, alla sanità, ai servizi sociali e la corruzione... Gianni continuò a lavorare, come se nulla fosse, nel suo laboratorio. Sì, lo aveva disturbato il fatto che gli avessero ridotto lo stipendio, ma la sola cosa che fece fu continuare a lavorare, continuare a ricercare e di tanto in tanto a firmare una petizione o una protesta, nient'altro. Aveva giustificato a sé stesso il suo atteggiamento dicendo che il meglio che potesse fare per la società era di continuare con la sua ricerca, ma la cosa certa è che questo lavoro non lo aveva portato a niente di pratico e tutto ciò che aveva fatto in Italia era andato perduto quando la barbarie contro la quale non aveva lottato si impadronì di tutto. In Francia aveva avuto una seconda opportunità, ma aveva ripetuto lo stesso errore. Davide aveva ragione: si chiudeva sempre nella sua torre d'avorio. E in Svizzera stava facendo, ancora una volta, la stessa cosa. Aveva sempre peccato di accademismo e gli era sempre mancata l'empatia, la preoccupazione sociale. “Se non ho amore non sono nulla”, ripeté, evocando i suoi anni della scuola.

Davide sorrideva, vedendo il vecchio professore tanto pensieroso, ma all'improvviso questi sbottò, in italiano:

- E Colette cose ne pensa di tutto questo?

Davide barcollò un poco, come se una tale domanda fosse un colpo inaspettato. Il problema di combattere con un vecchio amico è che ti conosce troppo bene e con poco può colpire dove fa più male.

- Colette... - vacilló nella risposta e per alcuni secondi Gianni vide il Davide timido ed insicuro col quale fuggì dall'Italia - … ovviamente vorrebbe che passassi più tempo con lei e coi bambini. Il più grande ha già dieci anni, sai? Lei dice che alla fine mi ammazzeranno, se continuo così. Che prendo troppo sul serio la Repubblica – e sorrise – e in tutto questo è lei la francese! - Davide si rese conto che stava abbassando la guardia – Ma io faccio tutto questo per lei e per i bambini. Non come te. Cos'hai tu? Se io muoio so che avrò lasciato qualcosa dopo di me, e tu? - e dopo una pausa – Vieni con me, Gianni, potresti vivere come noi, potresti essere il nonno dei figli che non hai mai avuto.

- No, Davide, no – disse Gianni scuotendo la testa – dove vai tu io non posso seguirti. Io non voglio seguirti. Preferisco morire lottando su queste montagne, difendendo quel poco che resta della decenza e della dignità in questo mondo, anche se so che cadrò in questo tentativo.

- Molto bene – disse Davide voltandosi – se è questo che desideri. Avete una settimana per cambiare idea, dopo di che verrò coi miei uomini e vi distruggeremo.

Il corteo francese si ritirò di buon passo, mentre gli svizzeri rimasero in silenzio, in piedi, guardandoli mentre se ne andavano. Dopo un po', Gianni chiese al Segretario di stato della Difesa, senza girarsi verso di lui:

- Perché ci danno una settimana se è già tutto deciso?

Il Segretario di Stato prese aria per qualche secondo e rispose:

- Perché non hanno truppe sufficienti e devono aspettare per riunirle. L'esercito della repubblica è sparpagliato per mezza Europa e questa nuova avventura militare richiederà loro uno sforzo importante. La Svizzera è un paese ben fortificato e ci battono solo se si riuniscono in un esercito di grande dimensione.

Durante quegli ultimi giorni in Svizzera si prepararono per una guerra che sapevano essere perduta in Partenza, mentre il distaccamento francese cresceva a vista d'occhio. Nonostante l'avversità e il disagio, la gente era più unita che mai. Avevano trasceso i progetti che aveva la Repubblica di schiavizzarli e trasformarli nei loro contadini e questo aveva infiammato il cuore del popolo svizzero, nato libero e disposto a morire libero.  I piani di attacco e contrattacco furono studiati e ristudiati e le difese si stabilirono in modo che si potesse ottenere il massimo profitto da esse. La Svizzera avrebbe potuto resistere alcune settimane all'assalto dell'Esercito francese, sperando in un miracolo. Dall'altra parte del paese, Gianni non aveva alcuna voglia di tutto questo, e si preparava con discrezione alla fuga. Ma dove poteva scappare? I paesi europei che non erano controllati dalla Repubblica erano tutte dittature. Quindi si trattava di scegliere un sentiero tortuoso per uscire dall'Europa, magari attraversando il Mediterraneo, per poi emigrare in America. Molto complicato, e molto caro, ma doveva provarci.

Era la notte del quarto giorno dall'ultimatum, tre giorni prima che si compiesse la minaccia di Davide. La Svizzera fu colpita da una pioggia ed un vento fortissimi, un uragano, come non si era mai visto prima nel paese. Nelle zone basse del paese ci furono inondazioni ed alcuni edifici crollarono. Si vedeva che il clima, in guerra con l'Umanità già da anni, non avrebbe concesso tregua agli uomini, benché fossero impegnati nelle loro proprie guerre. Una delle città Svizzere più danneggiate fu Ginevra, il primo obiettivo militare dell'invasore, per la sua ubicazione al di fuori delle catene montuose. Ma secondo i rapporti che stavano arrivando dagli osservatori in avanscoperta, si venne a sapere che al di fuori della Svizzera le cose furono molto peggiori. La pianura centrale francese era stata spazzata da un vero e proprio uragano di dimensioni gigantesche. E, per la sorpresa e la gioia degli svizzeri, l'esercito della Grande Repubblica era stato messo allo sbando dagli elementi. La maggior parte dei veicoli corazzati erano volati in aria come se si trattasse di giocattoli abbandonanti da un bambino, la maggior parte delle attrezzature erano andate perdute e fra le truppe c'erano state numerose perdite. Per alcuni giorni il Governo Svizzero dubitò se attaccare i francesi approfittando della loro debolezza per dare al loro esercito il colpo di grazia, ma a ragione decisero che la Svizzera non avrebbe cambiato il suo status di nazione non aggressiva. Quattro giorni dopo dell'ecatombe climatica, una seconda tormenta, di minore intensità della prima ma ancora abbastanza violenta, fino di disfare i resti dell'Esercito della Repubblica.

A Zurigo, gianni non credeva alle notizie che arrivavano dell'incredibile disfatta francese. Si erano preparati a lottare contro gli uomini, ma non si resero conto che dovevano fronteggiare un nemico più grande, contro il quale non servono né pallottole né minacce. Dopo di ciò, gli eventi precipitarono. La Francia ritirò di gran fretta le truppe dai paesi occupati per ricostituire il suo grande Esercito, ma scarseggiavano le risorse e molte infrastrutture cruciali erano state seriamente danneggiate dalla tempesta di San Alfonso, come la chiamarono. Per poter recuperare operatività militare, il Presidente della repubblica ordinò requisizioni forzate di numerose risorse nei territori occupati e nella stessa Francia, senza rendersi conto che la gente soffriva nel riprendersi dalla Tempesta stessa, che aveva causato stragi in campagna e nelle città. L'insensibilità del Governo della Repubblica di fronte alle difficoltà dei suoi cittadini e dei popoli sottomessi, scatenò un'ondata di rivolte in tutto il continente occupato, rivolte che si trasformarono in vere e proprie rivoluzioni. Il primo dei territori che recuperò la propria indipendenza fu il nord della Germania, che si auto-costituì come Repubblica di Prussia (senza tentare di riunificarsi con la Baviera e gli altri lander del sud). Il castello di carte della Repubblica crollò rapidamente, dando vita ad una pletora di nuovi paesi, visto che ogni paese occupato si frammentava come minimo in quattro nuove nazioni, di dimensione inferiore, più ragionevoli per la nuova era di risorse scarse. La stessa Francia, soccombendo alla proprie rivolte interne, si divise in sei nazioni.

Una mattina tiepida d'autunno, Gianni seppe che un tribunale popolare di Parigi aveva giudicato e condannato a morte il Governo della Repubblica. Fra i condannati c'era il Ministro dell'Energia e della Guerra, il Generale Davide Rosi. I condannati erano stati giustiziati alla ghigliottina, seguendo la tradizione nazionale, quattro giorni prima.

Per la prima volta nella sua vita, Gianni non si lamentò di aver portato con sé Davide. Perché quel giovane ambizioso gli aveva evitato di commettere tutti quegli errori. Davide era stato il riflesso oscuro di Gianni, ciò che sarebbe potuto diventare. Davide aveva occupato il posto che in altro modo avrebbe assunto Gianni. E Gianni fece ciò che non aveva fatto in tanti anni: abbozzò una semplice preghiera per il riposo dell'anima del suo ex studente. Dopo di che, contattò Colette con una lettera. Fortunatamente, non avevano cambiato indirizzo. Temeva che Colette gli desse la colpa della perdita del marito, ma la vedova si dimostrò amichevole, vicina come era sempre stata e persino riconoscente che l'avesse contattata nonostante le avversità. Vista che la scomparsa dello Stato francese e il naufragio degli impianti di Tesla aveva lasciato la famiglia senza risorse economiche, Gianni si impegnò a versare metà del suo stipendio da Professore Titolare dell'Università Tecnica di Zurigo a Colette.

L'Europa era rimasta senza risorse. La follia della Repubblica era stata l'ultimo lampo, la luce di una fiammata folgorante ed effimera. Tutto ciò che avrebbero potuto fare gli uomini da lì in avanti sarebbe stato fatto a mani nude, o quasi. Gianni di dedicarsi corpo ed anima a migliorare, in modo pratico, le condizioni di vita della gente, cominciando da quelle dei suoi compatrioti svizzeri di oggi. “Se non ho amore, non sono nulla”.

Antonio Turiel

Luglio 2013

martedì 26 marzo 2013

La decadenza delle infrastrutture

A “The Oil Crash”. Traduzione di MR






















Di Antonio Turiel

Cari lettori,

Il 29 di ottobre dello scorso anno, relativamente tardi per la stagione, l'uragano Sandy – gia' trasformatosi in tempesta tropicale – e' giunto sulla terraferma nello stato del New Jersey. Ancora dopo i due giorni che ha impiegato per esaurirsi mentre entrava nel territorio continentale degli Stati Uniti, ha causato danni apprezzabili, anche se non paragonabili al suo tragico bilancio dei giorni precedenti. Si trattava di un uragano minore, di categoria 2, mentre si muoveva su acqua tropicali e di categoria 1 quando si è avvicinato alla costa del New Jersey, mentre cominciava a degenerare. Il caso ha voluto che arrivasse contemporaneamente da un grande sistema frontale di origine polare, il che ha intensificato i suoi effetti, soprattutto sulla zona costiera, generando una mareggiata ciclonica di grandi dimensioni

Fra tutte le devastazioni che ha causato Sandy, con un elenco di decine di morti, i mezzi di comunicazione si sono concentrati sui danni personali e materiali che ha causato nella città di New York, forse perché quella città è la capitale economica del mondo, forse perché non è tanto normale che una tempesta tanto devastante arrivi a queste latitudini (non discuteremo ora se un tale evento sia veramente anomalo o semplicemente l'evento che deve avvenire ogni tot di tempo relativamente lungo). Ciò che è certo è che l'arrivo di Sandy nelle vicinanze di New York ha portato al mondo una sensazione di impotenza e di fragilità non usuali in una urbe tanto potente (forse un po' meno dopo l'11 settembre 2001).

Varie infrastrutture critiche sono mancate in quei giorni, compresa la metropolitana. Il caso della metropolitana di New York è stato paradigmatico. Questo impianto, di grande estensione e complessità, si trova, per la maggior parte del suo percorso, sotto il livello del mare. L'aumento del livello del mare a sommerso le installazioni e il sale marino ha aggiunto la corrosione alla complessità del drenaggio. Secondo le autorità, la metropolitana di New York non aveva mai fatto fronte ad una sfida tanto grande nei suoi 108 anni di storia. Per vari giorni i newyorkesi hanno dovuto subire l'interruzione del servizio di molte linee e ancora oggi alcune linee non funzionano a piena capacità. La situazione sta tornando ad una certa normalità... una normalità nella quale i problemi della metropolitana sono ricorrenti ad un certo livello, con interruzioni abituali del servizio in alcune occasioni per vari mesi.

Il caso della metropolitana di New York esemplifica abbastanza bene come la nostra società occidentale ed industrializzata si è arrischiata a costruire infrastrutture dalle quali ora dipendiamo a livello vitale ma che la cui manutenzione richiede grandi quantità di energia e materie prime. Tali costruzioni diventano sempre più fragili al passare del tempo, in parte per l'invecchiamento (la “curva della vasca da bagno” che è solito menzionare Rafa Íñiguez) e in parte perché sull'infrastruttura iniziale si vanno aggiungendo nuovi impianti per fornire servizi maggiori e migliori. In molti casi, queste aggiunte sovraccaricano la struttura precedente, che non era dimensionata per quelle capacità e questo fa dell'insieme una cosa tanto fragile quanto un castello di carte e con costi operativi e di manutenzione che crescono esponenzialmente col numero di funzionalità che le si vanno ad aggiungere. Il problema è che a un certo momento si arriva ad un punto nel quale, per la decrescita degli ingressi energetici che giungono alla società e per i costi crescenti della manutenzione, le infrastrutture non possono essere mantenute oltre e, senza un piano appropriato per il loro ridimensionamento, queste continueranno in un processo simile a quello della necrosi negli esseri viventi, cosa che può portare alla loro completa distruzione. Disgraziatamente, ideare un programma di ridimensionamento è qualcosa di politicamente molto impopolare e contrario al programma del progresso che sostiene la psicologia collettiva in occidente, così i rappresentanti politici preferiranno sempre mettere in marcia programmi complessi e costosi di riqualificazione ed estensione prima di progettare programmi di ridimensionamento e di di sfruttamento della parti più recuperabili ed essenziali dell'infrastruttura compromessa.

Il problema dell'insostenibilità delle infrastrutture della società moderna è molto più grave ed ha una portata molto più profonda di quanto la maggior parte della gente immagini e probabilmente anche di quanto sappiano molti dei lettori abituali di questo blog, al punto che si può dire, senza esagerare, che il possibile collasso di queste infrastrutture costituisce una delle minacce più grandi alle quali dovremo far fronte nei prossimi anni. Farò alcuni esempi.

Uno dei problemi che dovrà affrontare una società dalle risorse magre è quello della gestione delle installazioni nucleari. Abbiamo già parlato diverse volte dei vari rischi associati all'energia nucleare  e in particolare dei problemi di manutenzione degli impianti nucleari. Per esempio, in questo momento il costo della catastrofe di Fukushima in Giappone è valutata in 100.000 milioni di dollari. Un costo esorbitante che supera ampiamente i benefici netti che potevano dare le 6 centrali per tutta la loro vita utile: con una potenza installata per tutto il gruppo di 4,7 Gw e assumendo un Fattore di Capacità del 80% (quello usuale per una centrale nucleare), queste centrali producevano 33.000 Gw/h di elettricità all'anno. Considerando un prezzo medio approssimativo di 20 centesimi di dollaro per Kw/h come valore commerciale di tutta questa elettricità annua sarebbero 6.600 milioni di dollari. Anche con un margine commerciale del 50%, queste centrali darebbero un beneficio annuo di 3.300 milioni di dollari, per cui rimediare a questo disastro equivale a tutto il beneficio economico atteso dalle centrali in 30 anni (e questo senza tenere conto di altri costi variabili e dando per buona la cifra di 100.000 milioni di dollari di prima, che alcuni portano a 600.000 milioni di dollari). E in queste stime non si fornisce un orizzonte temporale, per quanto tempo dureranno le contenzioni impiegate. Ricordando l'altro grande incidente nucleare, quello di Cernobyl, recentemente si è saputo che una parte del reattore distrutto è cadente e questo mette più pressione perché si proceda alla costruzione del secondo sarcofago, visto che si sono rilevate numerose infiltrazioni nel primo (frutto dell'azione dell'inclemenza del clima e dell'erosione radioattiva), il quale ha un costo stimato di 1.500 milioni di euro e si spera che duri 100 anni. E' facile supporre che entro 100 anni dovrà essere di nuovo sostituito e che pertanto il costo dell'installazione (ora improduttiva in termini energetici) possa essere facilmente di varie migliaia di milioni di euro da oggi per diversi decenni (è difficile credere che durerà un secolo intero quando i process di deterioramento che agiscono su tale installazione sono in parte sconosciuti). Senza arrivare a questi casi estremi, vale la pena di ricordare che non è stata ancora smantellata nessuna centrale nucleare nel mondo alla fine della sua vita utile, processo che è molto lento – dura circa 50 anni. L'Amministrazione per lo Smantellamento Nucleare britannica stimava un costo di 70.000 milioni di sterline (circa 81.000 milioni di euro) per smantellare i 19 gruppi esistenti nel Regno Unito, anche se la valutazione di un processo tanto lento è complicata e probabilmente sarà molto maggiore – soprattutto per il fatto che non ne è avvenuta nessuna ad oggi.

Un altra infrastruttura la cui complessità è andata crescendo senza che ci sia alcun piano di sostenibilità associato è la rete elettrica nel suo insieme, tenendo in considerazione sia la distribuzione sia la produzione. I costi impliciti della folle espansione e dell'incapacità di conservare sia la forza generatrice sia la capacità di trasporto in rete portano a interruzioni ripetute e dalle gravi conseguenze. In Argentina è avvenuto un grande black out alla fine dell'anno scorso, anche se sembra uno scherzo in confronto con quello avvenuto in India la scorsa estate (l'8% dell'umanità è rimasto senza luce). Ad altre latitudini si prendono misure per evitare prevedibili black out: mentre in Giappone il disciplinato popolo nipponico ha tollerato pazientemente le restrizioni al consumo fino al 30%, necessarie dopo l'incidente di Fukushima, in Francia il presidente François Hollande ha proibito di mantenere accese le luci delle vetrine dei negozi e parte dell'illuminazione pubblica durante la notte (ma soprattutto non si dica che la Francia sia in Mali per garantirsi l'accesso all'uranio che le manca). E non è solo la generazione è in discussione, anche la stessa rete presenta problemi di costi di manutenzione crescenti. Spesso si è denunciata la complessità e l'alto costo della manutenzione della rete elettrica degli Stati Uniti, al punto che la Società degli Ingegneri Elettrici ed Elettronici (IEEE) denunciava anni fa la necessità di sostituire più del 40% della rete, antica di circa 100 anni, con un costo elevatissimo, se si voleva evitarne il collasso. In Spagna i problemi con la rete sono ricorrenti, anche se qui il problema viene più dal de-investimento delle compagnie elettriche che controllano il mercato che non dall'obsolescenza delle reti. In ogni caso, il ringiovanimento e la sostituzione della rete elettrica si prospetta problematica se dovesse sopravvenire il picco del rame, come sembra, verso il 2018 e se in realtà le riserve di rame rimanenti dipendono strettamente dalla disponibilità di energia abbondante per il suo sfruttamento. Sicuramente il rame si può riciclare, ma a quale costo energetico? E come si possono soddisfare le necessità delle potenze emergenti?

Se la rete elettrica è in pericolo, in un mondo che non può permettersi di pagare fatture energetiche sempre più care, la situazione non è migliore per il resto delle infrastrutture. Il cemento armato soffre di un problema di obsolescenza gravissimo che limita la vita utile delle infrastrutture fatte con esso ad un secolo come massimo, 50 anni nella maggior parte dei casi e molte infrastrutture cruciali stanno già raggiungendo quell'età. Il costo di rimpiazzare tutti i ponti, le strade, i canali sotterranei, le dighe e gli edifici è stimato in 3 miliardi di dollari solo negli Stati Uniti. Il problema è conosciuto da molto tempo e la sua soluzione è tecnicamente semplice, ma l'alternativa costruttiva è più lenta, cara e al fine di mantenere un BAU sfrenato e crescente è sempre stata disdegnata. Di nuovo, il sistema che è stato imposto si basa sull'ipotesi di avere accesso a quantità illimitate di energia e la mancanza della stessa genera un problema che si aggrava esponenzialmente nella misura in cui la durata di vita dell'infrastruttura si sta esaurendo. I Romani hanno costruito strade ed acquedotti che sono sopravvissuti 2000 anni; la nostra civiltà lascerà poche tracce che possono sopravvivere ai nostri nipoti.

Non è solo il capitale fisico quello che, per la sua scarsa qualità e per la sua grande dipendenza dall'energia futura, viene distrutto. Sta svanendo anche il capitale umano e la capacità di trasformarsi propria di una società industriale. Un aspetto di ciò è lo sprofondamento sempre più rapido del settore dell'automobile, che porta alla chiusura di fabbriche di moto e auto. La scomparsa delle industrie è grave per la perdita di lavoro e per il dramma della disoccupazione in primo luogo, ma su un secondo piano si produce un altro effetto indesiderabile: la perdita di base industriale. Visto che tutta questa industria, con le sue grandi dimensioni, è quella che ha reso possibile la costruzione su grande scala di componenti molto sofisticati che in altro modo non sarebbero praticabili economicamente. E non solo questo, ma che si possa garantire una manutenzione specializzata a prezzi ragionevoli. La maggioranza della popolazione è così abituata a questi miracoli tecnici quotidiani che non si rendono conto di quale impresa sia fabbricare un pannello fotovoltaico o fare manutenzione ad un aereo. Con lo sprofondamento dell'industria si perdono le fabbriche, gli strumenti specifici e si perde anche il capitale umano che un giorno gli aveva dato un senso. Inoltre, non si danno gli incentivi adeguati perché i più giovani scelgano strade professionalmente più difficili e socialmente meno riconosciute. Continuando con questa, tendenza potremmo incontrarci in poco tempo con una incapacità reale di provvedere a certe forniture chiave e di mantenere certe infrastrutture la cui riparazione aveva una complessità della quale non eravamo coscienti.

Il degrado delle infrastrutture e del capitale fisico e umano che le sostengono hanno una radice profonda, come sappiamo, nel declino energetico, e disgraziatamente lo va a ri-alimentare. Proprio nel momento in cui avremmo bisogno di incrementare più che mai la nostra disponibilità energetica, questa diminuisce. Proprio quando la bolla finanziaria è più grande che mai e che il capitale che abbiamo preso in prestito dal futuro è il più grande della Storia, ci troviamo in una situazione nella quale la crescita economica è impossibile. E' la tempesta perfetta. Questo nome Tempesta Perfetta è, giustamente, il titolo di un rapporto portato alla luce una settimana fa da un'importante firma finanziaria su scala globale, Tullet Prebon. E' un documento contrassegnato da preziose immagini di rovine di civiltà che sono collassate, il che da indicazioni su quali letture debbano aver ispirato il suo autore. In esso si suppongono le quattro cause per le quali l'attuale crisi è tanto grave e non ha precedenti e delle quattro una è posta in rilievo come la principale: il declino dell'energia netta. Risulta scioccante e allo stesso tempo confortante leggere, in un rapporto di una grande firma esclusiva britannica, che l'economia è solo il linguaggio e che la vera sostanza è l'energia, che l'economia deve essere ridotta alla sua dimensione energetica o che il concetto chiave è quello del Ritorno Energetico (in inglese EROEI). Tutta una rivendicazione del lavoro di Charles Hall e dei postulati economici delle teorie post capitaliste. Ma ciò che è veramente allarmante è vedere espresso con nitidezza il concetto di “abisso dell'energia netta” che avviene quando l'EROEI scende sotto una certa soglia, fenomeno del quale abbiamo già parlato qui tempo fa. Soprattutto quando gli analisti di Tullet Prebon considerano che l'EROEI di tutte le nostre fonti di energia potrebbe cadere a 11 in pochi anni. Data la non linearità del rapporto fra l'energia netta e l'EROEI, all'inizio le diminuzioni progressive dell'EROEI si traducono in diminuzioni molto piccole dell'energia netta. Tuttavia, oltre il valore limite di 10, piccole diminuzioni dell'EROEI conducono a grandi diminuzioni dell'energia netta. E' il precipizio o abisso dell'energia netta.

Che l'energia netta del petrolio stia diminuendo rapidamente è una cosa sempre più evidente. Qualche mese fa il costo marginale di un barile di petrolio superava i 92 dollari, un prezzo prossimo alla soglia del dolore per le economie industriali. Il prezzo del petrolio, pertanto, non si mantiene alto per piacere, ma per necessità. Come dimostrano un paio di dati significativi. Il primo, che nonostante i grandissimi investimenti effettuati, la produzione delle 5 grandi compagnie petrolifere occidentali, eredi delle “7 sorelle”, diminuisce a ritmo costante, come mostra il seguente grafico preso dall'articolo di Matthieu Auzanneau dove si spiega:



Il secondo è ancora più allarmante. In questo momento la maggior parte delle riserve di petrolio non sono in mano alle multinazionali che abbiamo analizzato, ma in quelle delle compagnie nazionali del Medio Oriente e delle compagnie più o meno statali che controllano gli scambi in Russia, Cina e Brasile. Data la collusione fra gli interessi degli affari duri e puri e gli Stati che, di fatto o di diritto, ostentano il controllo di queste compagnie, queste compagnie possono imbarcarsi in investimenti che vanno oltre la logica imprenditoriale e a favore di una logica di protezione degli interessi strategici degli stati che le sostengono. Mentre il mondo viveva i giorni dolci dell'espansione del credito e dell'energia sempre più abbondante non c'erano problemi, ma quando le risorse hanno iniziato a scarseggiare queste compagnie si sono lanciati in investimenti in nuove prospezioni oltre il ragionevole dal punto di vista dell'investitore. Non si può essere contemporaneamente compagnia pubblica e privata e gli investitori stanno cominciando a punire duramente queste compagnie che investono più di quello che guadagnano e in alto si spartiscono dividendi per proiettare una falsa immagina di cuccagna e normalità. Le azioni di Petrobras (Brasile) e Gazprom (Russia) crescono, mentre altre compagnie come Sinopec (Cina) sono sotto tiro per la loro pessima politica di investimento. Il grande affare che si supponeva fosse investire nel settore degli idrocarburi in quei paesi è risultato essere un'altra bolla finanziaria, semplicemente perché il petrolio e il gas non sono tanto abbondanti come si diceva. Esattamente la stessa cosa succede col fracking da queste parti. Ma ancora è difficile accettare che in realtà il settore è cambiato, che stiamo vivendo il tramonto del petrolio...

E se questa situazione non è di per sé affatto buona, il problema si vede aggravato di nuovo dalla decadenza delle infrastrutture. Quando calcoliamo l'EROEI del petrolio attualmente in estrazione, il risultato è migliore di quello che darebbe se realmente potessimo calcolarla in relazione a tutto il suo ciclo di vita, perché una parte dell'infrastruttura imprescindibile per il suo sfruttamento sta già lì e bisogna solo conservarla – finché si può. Il problema si pone, per tanto, quando l'infrastruttura è ammortizzata e si deve costruirne una nuova che la sostituisca. E' il caso, per esempio, delle raffinerie nel mondo occidentale. E' da più di 30 anni che non se ne costruiscono e, al contrario, per problemi di rendimento associati alla difficoltà di raffinare il diesel, molte stanno chiudendo. Se tutti questi costi, che un giorno si dovranno pagare, si tenessero in conto, l'EROEI risultante sarebbe minore e vedremmo che la società è condannata ad un collasso improvviso. Ma tale collasso non avviene mentre le infrastrutture siano operative, mentre non è necessario ripetere l'investimento di energia fatto per metterle in funzione. La nostra situazione è simile a quella dei passeggeri che viaggiano in un vecchio aereo che ha già esaurito la sua vita utile e si trova in mezzo all'oceano. Le sue ali sgangherate non permetteranno di attraversare la vasta estensione di acqua ma non sappiamo né quando né come cadrà.

Carlos de Castro è solito segnalare che l'EROEI del petrolio in realtà è minore di quello che si presume sempre e tuttavia ciò non comporta il collasso della società. Questa affermazione è vera a metà: il petrolio in questo momento beneficia del fatto di non dover pagare gli investimenti precedenti necessari per il suo sfruttamento sotto forma di infrastruttura (oleodotti, raffinerie, canali di distribuzione, rete di distributori), il che permette che il suo rendimento energetico sia molto maggiore che se si contasse la spesa energetica di tutto questo sfoggio in esso dovuto alla contabilità energetica. Tuttavia, un giorno o l'altro arriverà il momento in cui dovremo lasciar perdere tutto questo e le eccedenze che lascerà il petrolio allora probabilmente non saranno sufficienti. In quel momento, il dramma dell'EROEI molto basso affiorerà di colpo e la discesa sarà molto più improvvisa di quanto immaginato.

Il concetto di EROEI è molto utile per poter analizzare la sostenibilità della società, ma si deve tener conto che è un concetto termodinamico e pertanto ha un senso pieno solo quando si calcola in situazioni di equilibrio, pertanto statiche, nelle quali le cose non variano nel tempo o lo fanno molto lentamente. Per molto lentamente bisogna intendere che i fattori che cambiano lo fanno in periodi più prolungati della vita utile delle installazioni energetiche, così c'è tempo sufficiente per vedere se l'energia generata da alcune fonti è sufficiente per poter mantenere una società e allo stesso tempo pagare tutti i costi di ripristinare l'infrastruttura che richiedono. Tuttavia, noi stiamo applicando il concetto di EROEI in situazioni non statiche e così l'informazione che otteniamo da esse è molto erronea. E' la stessa cosa che fa sì che, per esempio, non siamo capaci di riconoscere se alcune fonti di energia non siano altro che estensione dei combustibili  fossili. Complica ancora di più le cose il fatto che l'essere umano ha una visione statica delle cose, anche quando sono dinamiche, e questo ci rende difficile riconoscere i cambiamenti se sono sufficientemente lenti rispetto al tempo interno della psiche umana. Abbiamo costruito tutto un complesso modello di società dando per scontato che il petrolio sarà sempre lì ad alimentarlo, senza tenere conto non solo che mancava il petrolio abbondante e a buon mercato, ma che avrebbe dovuto mantenere tutta una infrastruttura che lo puntellava e i cui costi iniziali erano stati pagati quando ci avanzava quello che ora ci andrà a mancare.

Questo declino delle infrastrutture, questa incapacità di sostituire ciò che si è potuto finanziare quando l'energia era a buon mercato, potrebbe essere alla fine la causa ultima e profonda del rapido declino della società teorizzato dal Prof. Ugo Bardi. Bardi osserva che le fasi di declino e collasso delle civiltà sono più rapide di quelle di ascesa, chiamandolo “Effetto Seneca”, in onore dell'insigne filosofo che già rilevava questo effetto nei suoi scritti sulla decadenza dell'Impero Romano  (“Il cammino verso la rovina è rapido”):

Bardi ipotizza che questo declino accelerato sarebbe dovuto ai costi crescenti del far fronte all'inquinamento, inteso in forma ampia, come qualsiasi effetto di degrado dell'ambiente o dell'habitat umano. Dato che l'habitat di un essere umano ha già una componente “artificiale” (antropizzata, sarebbe il termina più appropriato) , la decadenza delle infrastrutture si potrebbe intendere come un effetto di degrado del tipo menzionato. Pertanto, potrebbe ben essere il caso che una delle cause più importanti del declino precipitoso delle civiltà, quando superano l'abisso dell'energia netta, non sia tanto l'inquinamento in senso stretto, ma la capacità di assumersi i costi differiti incorporati nelle infrastrutture e i loro inevitabile collasso trascinerebbe con sè il la società intera.  

La conclusione di questa lunga discussione è che le nostre infrastrutture, che oggi diamo per scontate nella loro grandiosità ed efficienza, sono condannate a decadere a un ritmo simile a quello della nostra disponibilità energetica netta (Dario ha portato nel post precedente un interessante caso pratico con la relazione fra la diminuzione del consumo di benzina e le difficoltà di manutenzione delle strade). Tale prospettiva introduce una nuova variabile di preoccupazione, che si aggrava anche di più se teniamo conto che conservare un buon EROEI per lo sfruttamento delle fonti di energia rimanenti dipende, per l'appunto, dalla conservazione di quelle stesse infrastrutture che sono condannate. E' un nuovo effetto non lineare del declino energetico, uno dei più perniciosi e probabilmente la chiave dell'Effetto Seneca.

In realtà, al posto di cercare di mantenere a tutti i costi queste infrastrutture che inevitabilmente decadranno, ciò che si dovrebbe studiare ed analizzare è ciò che si può ragionevolmente mantenere su base locale. Altrimenti, queste infrastrutture grandiose ci trascineranno nella loro caduta col loro peso gigantesco, facendoci spendere rapidamente le poche risorse che ci restano. 

Saluti.
AMT







domenica 22 maggio 2016

Il cambiamento climatico è la più grossa minaccia alla civiltà umana

Da “wunderground”. Traduzione di MR

Di Jeff Masters

La più grande minaccia del cambiamento climatico alla civiltà nei prossimi 40 anni saranno probabilmente le siccità e le alluvioni estreme amplificate dal cambiamento climatico che colpiscono molteplici colture di “paniere” simultaneamente. Un rapporto sullo "Shock del sistema alimentare" pubblicato nel 2015 dai giganti delle assicurazioni Lloyds di Londra ha sottolineato uno shock estremo plausibile alla produzione globale di cibo che potrebbe causare rivolte, attacchi terroristici, guerre civili, fame di massa e perdite gravi per l'economia globale. Il loro scenario, al quale i Lloyds hanno dato delle scomode ed alte possibilità che si verifichi – significativamente più alte dello 0,5% all'anno, che determina una possibilità di almeno il 18% che si verifichi nei prossimi 40 anno – dice questo:

Un forte evento de El Niño si sviluppa nell'Oceano pacifico equatoriale. Gravi siccità tipiche de El Niño colpiscono l'India, il sudest dell'Australia e il sudest asiatico, causando le seguenti perdite di raccolti (notate che grano, riso e mais costituiscono oltre il 50% di tutta la produzione agricola in tutto il mondo):

India (primo esportatore mondiale di riso e settimo di grano: grano -11%, riso -18%
Vietnam (secondo esportatore al mondo di riso): riso -20%
Australia (terzo esportatore al mondo di grano): grano -50%
Bangladesh, Indonesia, Thailandia, Filippine: riso da -6% a -10%

Alluvioni storiche colpiscono i fiumi Mississippi e Missouri, riducendo la produzione di mais negli Stati Uniti del 27%, di soia del 19% e di grano del 7%. Bangladesh, India nordorientale e Pakistan vedono grandi perdite di raccolti dovuti a piogge torrenziali, alluvioni e frane, col Pakistan che perde il 10% del suo raccolto di grano.

giovedì 4 febbraio 2016

Zombi, chimere e totalitarismo

Di Jacopo Simonetta

“Il vecchio mondo muore e il nuovo non può nascere; in questo chiaro-scuro sorgono i mostri” scriveva Gramsci nei suoi quaderni.   Sia il “vecchio” che il “nuovo” mondo cui pensava lui sono stati archiviati dalla storia, ma di mostri se ne incontrano più che mai.

Zombi e chimere, come creature fantastiche, nascono da tradizioni lontanissime, ma come mostri politici sono invece strettamente affini.   Come definire, ad esempio, un soggetto come il partito Nazi-Bolscevico se non una chimera formata da due zombi?   Per citare un solo esempio, particolarmente spettacolare e inquietante.

Fra tanti mostri, quelli probabilmente più pericolosi sono quelli genericamente riconducibili ad un revival di nazionalismo e ad un ricorrente desiderio di “un governo forte”.   Entrambi fenomeni cui tutti i popoli europei (e non solo) hanno già versato un ingente tributo di lacrime e sangue, ma che ostinatamente tornano ad emergere.   Quasi che, quando le cose si mettono male, sorga una specie di irrefrenabile desiderio di farle andare ancora peggio.   Forse non aveva tutti i torti Freud con la sua “Pulsione di morte”.

Ma esiste un altro zombi, particolarmente insidioso perché seduce anche molte persone impermeabili alla retorica nazionalista e/o razzista.   Si tratta del “complotto”.   Non sembra tanto pauroso, anzi molte delle sue varianti, dalle scie chimiche al dominio dei rettiliani, sono particolarmente stravaganti, perfino buffe.   Eppure…

L’evocazione di fronte a fenomeni nuovi e non interamente ancora conosciuti della vita sociale e politica di un simile passepartout (il complotto), capace di fornire una spiegazione onnicomprensiva di fenomeni (…) ben più complessi, funse come fattore di rassicurazione nei confronti di ceti soprattutto della piccola e media borghesia insidiati da insicurezza economica, ma anche da problemi di status

Queste parole furono scritte nel 1995 dallo storico Enzo Collotti a proposito del “Complotto giudaico” che tanto contribuì all'ascesa di Hitler.   Si tratta di fenomeni diversi, eppure fra i “Saggi di Sion” e gli “Illuminati” o simili ci sono delle analogie.   In entrambi i casi si tratta infatti di immaginari gruppi di persone dotate di un potere oscuro e sfuggente, forse perfino sovrannaturale.   In segreto tessono trame secolari ed esiziali.   Per salvarsi e riportare in auge i gloriosi e/o prosperi tempi passati è necessario sconfiggerli una volta per tutte.

Ovviamente, ciò non basata a dimostrare che siamo in pericolo; tantomeno che un piccolo “Adolf” sia in agguato da qualche parte.   Ma zombi e chimere non sono gli unici sintomi di malattia dei sistemi democratici.   Secondo l’Eurobarometro, oggi solo il 33% dei cittadini europei dichiara di avere fiducia nelle istituzioni comunitarie, mentre per i governi nazionali la percentuale scende ad uno scarso 27%.    Percentuali analoghe od ancora inferiori bollano anche partiti, sindacati, amministrazioni locali e tutte le altre istituzioni.   Perfino le associazioni di ogni genere sono quasi ovunque screditate e, spesso, in via di estinzione.

Se ne potrebbe concludere che la gente ne abbia abbastanza della democrazia, sennonché il 90% degli intervistati afferma che questo è invece il metodo di governo migliore.    Anzi, la maggior parte di loro si lamenta del fatto che non ci sia abbastanza democrazia e ciò malgrado gli stati democratici siano passati da una dozzina, nel 1946, ad un centinaio oggidì.   Si direbbe che, mentre gli ordinamenti di tipo democratico si sono moltiplicati, la credibilità dei medesimi sia diminuita.   Un fenomeno certamente molto complesso sulle cui cause si discute molto più che sulle possibili conseguenze; quasi che lo status di “democrazia matura” sia un traguardo evolutivo irreversibile.   Non ne sarei troppo sicuro.

Hannah Arendt ed i suoi continuatori hanno analizzato a fondo gli elementi che concorrono a creare un governo totalitario.   Vorrei ricordarne alcuni.

Il primo è la trasformazione della popolazione in “massa”, intesa come insieme sovrabbondante di individui sradicati da ogni tradizione e fedeltà sociale, isolati e frustrati, impoveriti e spaventati, privi di prospettive e di riferimenti.   Insomma proprio il tipo di umanità che sta proliferando.
Questo fattore storico si integra perfettamente con quello che Byung-Chul Han, definisce lo “sciame digitale”.   Vale a dire la massa di cui sopra, ma travolta da un susseguirsi isterico di ondate di indignazione, entusiasmo, ira, eccetera costruite e diffuse tramite la rete.   Un fenomeno spontaneo che potrebbe però essere facilmente manipolato da chi controlla la rete.

Il secondo elemento è un’ideologia che spiega in modo banale come i mali che affliggono la massa, dalla crisi economica fino agli attentati, le alluvioni, le carestie e quant'altro, facciano parte di una trama occulta tessuta da un nemico implacabile.   Il nemico deve essere immaginato come capace di infiltrarsi e diffondersi come un’infezione.  La paura ed il sospetto devono essere i sentimenti dominanti fra i membri della massa.  Una qualunque variante del “Complotto” può quindi divenire un elemento importante di una simile ideologia.

Il terzo è molto pratico: il monopolio o, perlomeno, lo stretto controllo delle armi da fuoco.    Un fatto che è già stato realizzato da decenni per ragioni di sicurezza pubblica in tutti i paesi occidentali, tranne che negli USA che per questo pagano un altissimo tributo di vittime

Il quarto è la persecuzione di una minoranza arbitrariamente scelta come capro espiatorio.   La crescente mobilità di masse umane sta creando in ogni paese un’ampia gamma di minoranze potenzialmente utili a questo scopo.   Oltre agli “evergreen” sempre disponibili: ebrei e zingari in primis.

Il quinto è la presenza di un apparato di spionaggio capillare e pervasivo.   Un campo in cui dal 2001 ad oggi sono stati fatti passi da gigante, specialmente grazie alle moderne tecnologie.   Attualmente, in occidente, queste vengono usate essenzialmente per dare la caccia ad evasori fiscali e islamisti pericolosi.   Ma l’esperienza dimostra che quando una classe dirigente si sente seriamente minacciata non esita ad usare gli strumenti che ha.

Inoltre, la mole dei dati spontaneamente messi a disposizione dagli utenti oramai mette i gestori della rete, o chi per loro, in condizione di poter modellizzare i comportamenti della massa, acquisendo un vantaggio politico immenso su chi non ha accesso a questi dati ed a queste tecnologie (Han “Nello sciame” - ed. Nottetempo 2015)

Un altro pezzo fondamentale del puzzle è una situazione di grave stress sociale, accompagnato da un massiccia perdita di credibilità da parte delle istituzioni democratiche e della classe dirigente in generale.   La massa deve provare un desiderio spasmodico di “cambiamento”, costi quel che costi.

L’ultimo elemento necessario per instaurare un regime totalitario è un capo carismatico.   Magari proprio quell’ “uomo forte” che tanta gente spera sorga dal nulla per risolvere tutti i problemi, punire “loro” che sono i colpevoli e vendicare “noi” che siamo le vittime.   E non è neppure necessario che vengano abolite le elezioni.   E’ sufficiente vincerle per poi adeguare le costituzioni e le norme elettorali, oltre che privare gli oppositori dei mezzi economici e della visibilità necessari per essere efficaci.   Quello che sta accadendo in vari paesi europei (Francia, Ungheria Polonia, Italia fra gli altri) è estremamente preoccupante da questo punto di vista.

Ognuno di questi argomenti è stato approfondito da filosofi e politologi, ma raramente questi si preoccupano della situazione ambientale del nostro pianeta.   E delle prospettive che ne derivano.

Riassumendo all'estremo, la principale conseguenza dell’impatto contro i "Limiti dello Sviluppo"  è un brusco incremento degli effetti dei “ritorni decrescenti”.   Fra le conseguenze principali ricordiamo l’erosione del potere d’acquisto dei lavoratori, l’incremento del debito e della pressione fiscale, il peggioramento delle condizioni di lavoro, l’aumento della disoccupazione ed altri simili.   Vi si associano un clima inclemente, masse di gente allo sbando, classi dirigenti ampiamente screditate ed istituzioni delegittimate, problemi di salute e qualità di vita in peggioramento, guerre locali e movimenti integralisti di ogni colore.

Che sarebbe successo si sapeva con buona approssimazione circa 40 anni fa e gli stati (democratici e non) si sono dimostrati incapaci di prevenire questa situazione.    E ora che la resa dei conti è cominciata, si stanno dimostrando incapaci di fronteggiarla.   Tuttavia, prima di invocare il “cambiamento” ad ogni costo, ricordiamoci che questo potrebbe anche essere in peggio.

Ci sono calamità cui non abbiamo più modo di sfuggire, ma fortunatamente nessuna legge termodinamica o biologica rende necessario un governo totalitario.   Possiamo quindi evitarlo, ma occorre fare molta attenzione.

Si fa presto a passare dalla padella nella brace, mentre tornare indietro è difficile.


 “La democrazia non può sopravvivere alla sovrappopolazione.  La dignità umana non può sopravviverle.   La convenienza e la decenza non possono sopravviverle.   Man mano che si mette sempre più gente nel mondo, il valore della vita non solo declina, scompare."
Isaac Asimov