giovedì 22 gennaio 2015

Barile a 50 dollari: rischio di recessione per il settore petrolifero

L'articolo che segue è di solo due settimane fa. Ora, i prezzi sono scesi addirittura intorno ai 45 dollari al barile. (UB)
 


DaOil Man”. Traduzione di MR

Di Matthieu Auzanneau

Esistono le gare di fondo. Questa è una gara verso il fondo. I prezzi del petrolio cadono a 50 dollari questa settimana, come mai visto dai giorni successivi alla crisi del 2008. Tanto vertiginosa quanto inaspettata, la caduta del prezzo dell'oro nero ha ormai raggiunto il 55% dall'inizio di giugno.

E' la prova di un ritorno duraturo dell'abbondanza petrolifera? Non corriamo troppo.

Conseguenza del boom del petrolio “di scisto” negli Stati Uniti e della fragilità della crescita economica mondiale, questo contro-shock petrolifero sta per mettere a nudo i re del petrolio. Da Ovest a Est, da Nord a Sud, tutti i produttori petroliferi del mondo, grandi e piccoli, oggigiorno pompano il greggio a rotta di collo al fine di salvaguardare un po' il loro giro d'affari, con la speranza che la concorrenza crepi prima. Di fronte a difficoltà economiche molto gravi, la Russia di Putin, oggi prima produttrice mondiale di oro nero davanti all'Arabia Saudita, ha ampiamente contribuito a rilanciare il giro infernale in questo inizio d'anno, annunciando una produzione record per il mese di dicembre (anche se Mosca l'estate scorsa lasciava intendere che le estrazioni russe dovrebbero diminuire nel 2015, mancanza di investimenti sufficienti...). I prezzi non sono in procinto di tornare a crescere nei prossimi mesi, come prevede la maggior parte degli analisti: la crescita economica rimane debole (eccetto per gli Stati Uniti, dopati fin qui dal gas e dal petrolio “di scisto”) e dei barili in più arrivano sul mercato provenienti dall'Iraq, ma anche dall'Africa Occidentale, dal Brasile, dal Canada e dagli Stati Uniti.



L'Arabia Saudita, il cui rifiuto di prendere l'iniziativa di una riduzione delle estrazioni in seno all'OPEC ha amplificato la caduta dei prezzi, si è preparata per far fronte ad almeno due anni di prezzi del petrolio più bassi, rivela il Financial Times. Peso massimo dei pesi massimi fra i paesi produttori, l'Arabia Saudita non ha paura di arrivare sull'orlo della guerra dei prezzi. In un'intervista recente concessa ad un'agenzia specializzata, il ministro del petrolio saudita, Ali al-Naimi, si è spiegato un po' più chiaramente:

“Se riduco [la produzione saudita], che cosa arriva dalla mia parte del mercato? Il prezzo salirà di nuovo e i russi, i brasiliani e i produttori americani di petrolio di scisto recupereranno la mia parte”.

Finché non ne resterà uno solo.... Con le casse piene, riserve di greggio favolose e uno dei costi di estrazione più favorevoli del mondo (intorno ai 10 dollari al barile), Riyad può permettersi di stare a guardare cosa succede.

Non è così per tutti.

(Sorvoliamo sulle prime vittime evidenti: questo contro-shock costituisce anche una pessima notizia per l'ecologia ed il clima. Gli industriali europei del riciclaggio, per esempio, dicono che questi giorni stanno venendo schiacciati, mentre le alternative alle auto a benzina sembrano più politicamente invendibili che mai – i berretti rossi si tingono di rosa dalla gioia?) (i "berretti rossi" sono un movimento politico francese che si oppone alle "tasse ecologiche" sulla benzina - n.d.t.).

Si preannuncia un'ondata di effetti secondari, potenzialmente devastatrice per l'industria petrolifera, che costituisce di gran lunga il primo settore industriale del mondo, sia in termini di giro d'affari che di investimenti. Lo era prima della caduta dei prezzi in ogni caso. Gli annunci in questi giorni si moltiplicano e si somigliano: i suddetti investimenti petroliferi stanno per essere fortemente ridotti, in primo luogo nel campo dei nuovi petroli estremi e non convenzionali, così costosi e indispensabili al fine di compensare il declino di numerose zone d'estrazione di petrolio convenzionale (e di ritardare così l'avvento del "picco del petrolio").

Una sintesi dell'AFP pubblicata ieri sera riassume:

“I tagli dovranno essere particolarmente gravi in Nord America (dal 25 al 30%), in particolare per l'Artico, le sabbie bituminose canadesi e le installazioni di petrolio e gas di scisto”.

E stata accesa una bomba economica a miccia corta negli Stati Uniti?

Il settore dell'energia, e in primo luogo quello degli idrocarburi,  fino al 30% delle spese di investimento del S&P 500, l'indice faro di Wall Street, sottolinea l'AFP, che evoca “lo spettro di un rischio sistemico”. Le azioni dell'azienda americana Halliburton, leader mondiale delle infrastrutture petrolifere, hanno perso la metà del loro valore dall'estate scorsa. Dipendenti dal debito, le società americane specializzate nel gas e nel petrolio “di scisto” devono far fronte dal mese di giugno ad un aumento dei tassi di interesse sui mercati dei prestiti ad alto rendimento, sottolineava a dicembre l'agenzia Bloomberg. Caduta dei prezzi in borsa, rialzo dei prestiti a rischio: il granchio è in trappola... Oltre agli Stati Uniti, tutte le industrie petrolifere sono condizionate. Il valore delle azioni della francese Total per esempio è in ritirata di circa un quarto dal mese di giugno. Segno che qualcosa minaccia di marcire tutt'intorno all'industria dell'oro nero: lunedì, il primo passaggio dei prezzi del barile sotto la soglia dei 50 dollari dal dicembre 2008 ha “messo paura” agli operatori dei mercati di borsa, secondo l'espressione di un giornalista del New York Times. Questo passaggio sotto i 50 dollari è stato accompagnato da un crollo del S&P 500 degli Stati Uniti, così come dell'indice Nikkei giapponese, quando in realtà lo stesso petrolio a buon mercato dovrebbe incoraggiare una ripresa dei consumi in tutto il mondo.

Crisi di mezza età? I cinquantenni sotto steroidi non invecchiano bene. Il contro-shock petrolifero promette di avere delle conseguenze enormi sui progetti petroliferi futuri, in particolare nel campo decisivo dei petroli non convenzionali ed estremi.

Inizia un contrappunto pericoloso.

Se la produzione dovesse rimanere sovrabbondante quest'anno di fronte ad una domanda debole, il seguito degli avvenimenti si annuncia fra i più precari. Come minimo, le possibilità di replicare altrove i “miracolo” del petrolio di scisto del Texas e del Nord Dakota, sembra allontanarsi immediatamente. Nel frattempo, il tasso di declino medio detto “naturale”, cioè in assenza di tutti i nuovi investimenti, della produzione esistente di greggio, oggi raggiunge il 4-6% all'anno, secondo diverse stime. Ricordate (per gli habitués di questo blog): un tale tasso di declino “naturale” implica che ormai bisogna sostituire la metà della produzione petrolifera mondiale ogni dieci anni, ovvero l'equivalente di 4 Arabie Saudite, soltanto per mantenere la produzione al livello attuale. Mi sembra sensato concludere che dopo il picco storico raggiunto nel 2008 dal petrolio convenzionaleil quale costituisce ancora il 4/% delle estrazioni – potremmo stare per assistere ad una seconda fase sul “plateau ondulato” della produzione mondiale di greggio. Dopo numerose analisi scientifiche solide (le più recenti) prodotte da esperti di petrolio nel corso di dieci anni, questo “plateau ondulato” precede un declino inesorabile della produzione mondiale di oro nero e con lui della società termo-industriale così come la conosciamo dalla metà del 19° secolo.