domenica 30 novembre 2014

Un nuovo studio fornisce i dettagli di un'accelerazione allarmante dell'aumento del livello dei mari

DaClimate Progress”. Traduzione di MR

Di Ari Phillips


Foto:Shutterstock

La fusione del ghiaccio polare Antartico e dei ghiacciai continentali, insieme all'espansione termica dell'acqua dell'oceano hanno accelerato l'aumento del livello del mare al tasso più alto in almeno 6.000 anni, secondo un nuovo studio contenuto negli Atti dell'Accademia Nazionale delle Scienze. Usando dati provenienti dai campioni di antichi sedimenti di Asia ed Australia, i ricercatori sono tornati indietro per 35.000 anni di storia de livello dei mari, scoprendo che negli ultimi 6.000 anni è cambiato poco – fino a 150 anni fa. 

Usando indicatori dei livelli del mare delle ere, come la locazione di antiche radici di alberi e molluschi, la ricostruzione degli scienziati non ha trovato prove del fatto che il livello dei mari abbia avuto fluttuazioni di più di circa 8 pollici durante il periodo relativamente stabile che è durato fra i 6.000 e 150 anni fa. Poi, dall'inizio della rivoluzione industriale, il livelli del mare sono già saliti della stessa quantità. Gli scienziati attribuiscono al cambiamento climatico e all'aumento delle temperature che causano la fusione del ghiaccio polare e dei ghiacciai e l'espansione termica degli oceani la causa primaria del rapido ed estremamente insolito aumento del livello del mare. L'acqua si espande quando si riscalda e c'è acqua che si riscalda a sufficienza nell'oceano da causare un impatto significativo sui livelli del mare. 

La finestra temporale di 35.000 anni è stata scelta perché rappresenta un periodo interglaciale con temperature globali maggiori che separa ere glaciali. L'attuale interglaciale dell'Olocene ha persistito dalla fine del Pleistocene, circa 12.000 anni fa, con periodi interglaciali che di solito vedono intervalli da circa 40.000 a 100.000 anni. I ricercatori hanno scoperto che il ghiaccio ha cominciato a fondersi 16.000 anni fa ed ha smesso circa 8.000 anni fa, ma i livelli del mare non hanno iniziato a rallentare fino a circa 6.000 anni fa. 

“Sappiamo dall'ultimo periodo interglaciale che quando le temperature erano di diversi gradi maggiori di oggi c'era molta più acqua negli oceani, con livelli introno a 4 o 5 metri più alti di oggi”, ha detto al Guardian l'autore principale Kurt Lambeck, un professore all'Università Nazionale Australiana. “La questione è quanto rapidamente avviene il cambiamento se si aumentano le temperature”. 

Lambeck ha detto che l'aumento del livello del mare degli ultimi 100 anni è “fuori discussione” e che “ciò cui abbiamo assistito è insolito, di sicuro senza precedenti per questi periodi interglaciali”. Ha anche detto che questo è un processo che non può semplicemente essere spento e che “i livelli del mare continueranno a salire per qualche secolo a venire anche se manteniamo le emissioni di carbonio ai livelli di oggi”. “Ciò che vediamo nei mareografi non lo vediamo nelle passate registrazioni, quindi sta succedendo qualcosa oggi che non succedeva prima”, ha detto Lambeck. “Penso che sia chiaramente l'impatto dell'aumento delle temperature”. 

L'aumento del livello del mare causerà grande danno e dislocamento lungo le linee costiere in tutto il mondo. Uno studio recente ha scoperto che le grandi città degli Stati uniti lungo le coste avranno 10 volte tanto più allagamenti per metà secolo. Negli Stati uniti, quasi 5 milioni di persone vivono in aree a meno di quattro piedi al di sopra dell'alta marea, una quota che è particolarmente suscettibile all'aumento dei livelli del mare che potrebbero aumentare di quella quota per la fine del secolo.

sabato 29 novembre 2014

Ma quale pausa? Il 2014 è “in corsa” per diventare l'anno più caldo mai registrato

Da “Climate Crocks”. Traduzione di MR


I dati preliminari della NASA indicano il settembre più caldo mai registrato.

Climate Central:

“Se continuiamo con un allontanamento coerente dalla media per il resto del 2014, scalzeremo il 2010 come l'anno più caldo mai registrato”, ha detto Jake Crouch, un climatologo del National Climatic Data Center del NOAA durante una conferenza stampa giovedì.

Nello specifico, se ogni mese dell'anno che rimane si classificherà fra i primi cinque più caldi, il 2014 si prenderà il primo posto, ha detto. 

La notizia potrebbe risultare sorprendente a coloro che vivono nella parte orientale degli Stati Uniti (e anche d'Europa, ndt.), che ha visto un anno relativamente freddo finora, con un inverno rigido seguito da un'estate quasi nella media (che è sembrata estremamente mite in confronto alle recenti estati bollenti). Ma il quadro globale mostra che l'Est è stato “praticamente la sola area di terraferma del globo che ha avuto temperature più basse della media”, ha detto Crouch. (Gli Stati Uniti occidentali, al contrario, sono stati un forno).

Il grafico sotto mostra i punti in cui il 2014 è in relazione con gli altri anni fino a questo momento. Delle persone che ne sanno mi hanno detto che il 2014 è “in corsa” per diventare l'anno più caldo, alche se servirà un periodo torrido per essere il numero 1. E' molto probabile che si assesti fra i primi 5.


giovedì 27 novembre 2014

Petrolio: la quiete prima della tempesta, secondo la IEA

Da “Oil Man”. Traduzione di MR

La IEA avverte nel suo ultimo rapporto annuale: il pianeta petrolio sta per entrare in una zona ad altissimo rischio, nonostante ciò che potrebbe far pensare l'attuale prezzo dell'oro nero. Conseguenza della rivoluzione del petrolio “di scisto” negli Stati Uniti e del rallentamento della crescita mondiale, la spettacolare riduzione dei prezzi del barile minaccia di prosciugare gli investimenti indispensabili per allontanare lo spettro del picco del petrolio, conferma la IEA.

Il capo economista della IEA Fatih Birol, avverte:

“L'immagine a breve termine di una mercato del petrolio ben approvvigionato non deve mascherare i rischi futuri (…), nella misura in cui aumenta la dipendenza nei confronti dell'Iraq e del resto del Medio Oriente”. 




Crescita prevista della produzione mondiale di greggio (la produzione attuale è dell'ordine dei 90 milioni di barili al giorno) Fonte: IEA, 2014.

Il dottor Birol non si arrischia a dire quanto tempo potrebbe durare l'attuale crollo del prezzo del barile (tuttavia, a margine di una presentazione a Brussels, evoca a mezza voce un periodo di due anni), ma secondo lui, la tendenza a lungo termine è necessariamente al rialzo del prezzo dell'oro nero: Egli prevede:

“Tenuto conto dei tempi necessari per sviluppare i nuovi progetti di estrazione, le conseguenze di una mancanza di investimenti potrebbe impiegare del tempo a materializzarsi. Ma cominciano ad accumularsi nuvole sull'orizzonte a lungo termine della produzione mondiale di petrolio; sono foriere di possibili condizioni di tempesta di fronte a noi”. 

La linea della potenziale tempesta emerge esaminando il grafico della IEA riprodotto qua sotto:

- il boom della produzione americana dovrà finire prima della fine del decennio (conformemente alle diagnosi più recenti dell'amministrazione Obama);

- al di fuori degli Stati Uniti, non ci sono repliche significative da aspettarsi dal boom del petrolio “di scisto” (o di roccia compatta, per essere più precisi);

- i petroli non convenzionali nordamericani (petrolio di roccia compatta negli Stati uniti, sabbie bituminose in Canada) non saranno sufficienti da soli ad apportare una compensazione delle fonti convenzionali di petrolio in declino;

- già più che delicato da conservare da quando il barile è sceso sotto i cento dollari (in particolare per le "majors"), il gigantesco sforzo di investimento – dell'ordine dei 500 miliardi di dollari l'anno – necessario al fine di compensare il declino naturale del numero delle vecchie e più grandi fonti di greggio e giunte alla maturità, è più difficili da sostenere in particolare ora che il barile è crollato sotto gli 80 dollari , rileva la IEA, in particolare per quanto concerne le sabbie bituminose e le trivellazioni ultra profonde al largo del Brasile. In giugno, quando il barile era ancora a 115 dollari, la compagnia petrolifera francese Total ha riposto negli scaffali un progetto da 10 miliardi di dollari in Canada, perché non offriva un rendimento sufficiente. Ormai, segnala il Financial Times, emergono problemi molto consistenti di redditività dei progetti offshore e rapporti di tensioni vive condivise dai paesi membri dell'OPEC. Il ritmo delle trivellazioni del petrolio di roccia compatta negli Stati uniti sembra flettere in queste ultime settimane, constata altrove l'agenzia Bloomberg;

- last but not least (at all), in rosso sul grafico, quello che si chiama “Medio Oriente” corrisponde essenzialmente alla crescita attesa della produzione di greggio iracheno. Comprenderete le vertiginose implicazioni geostrategiche – agghiaccianti? - dell'importanza futura, ben più cruciali di oggi, attribuite dalla IEA alla produzione irachena (paese più o meno in stato di guerra o sotto embargo da 34 anni), mentre il dottor Birol constata, senza sorpresa, che “l'appetito” degli investitori per l'Iraq sembra di questi tempi un po' ridotto...

Sul fronte del clima, l'accordo fra Stati Uniti e Cina siglato la settimana scorsa è a giusto titolo qualificato come “storico” da fatih Birol.

Il presidente Barack Obama ha impegnato gli Stati uniti a ridurre dal 26 al 28% le loro emissioni di CO2 nel 2025 in relazione al loro livello del 2005. Il presidente cinese Xi Jinping, in cambio, assicura che le emissioni cinesi raggiungeranno un picco “verso il 2030”.

Questo accordo è “storico” se non altro perché conferma la probabilità molto alta di un'alterazione irreversibile del clima, anche se, ancora una volta, non è una sorpresa.



Il futuro del carbone cinese è l'altra grande novità celata nel rapporto annuale della IEA:
il grafico della IEA (con “un alto livello di certezza”, precisa Fatih Birol) sull'avvio corrente di un picco del consumo cinese di carbone.


IEA, 2014.

Con quale energia ha scelto la Cina di alimentare prioritariamente la propria economia, riducendo l'intensità delle proprie emissioni di gas ad effetto serra?

Lo sviluppo del nucleare in Cina promette di essere non meno spettacolare di quello delle energie rinnovabili pianificato da Pechino:


Evoluzione della potenza nucleare installata da qui al 2040. IEA, 2014.

130 GW in più nel 2040, è quasi più del doppio del parco nucleare francese e più del 30% della totalità del parco nucleare americano, il primo del mondo. La Cina attualmente dispone di una capacità nucleare di 12 GW.

mercoledì 26 novembre 2014

Crisi dello Stato: una prospettiva dal punto di vista della crisi energetica

DaThe Oil Crash”. Traduzione di MR



Di Antonio Turiel

Cari lettori,

il tema che affronterò oggi appartiene a un tipo diffuso di argomenti dei quali preferisco non parlare. Non mi piace parlare di questi temi non perché siano un tabù, ma perché non mi considero sufficientemente capace e in possesso della conoscenza adeguata per affrontarli in modo appropriato, per cui più che in altri casi quello che potrei dire è fortemente discutibile e persino sbagliato, almeno in parte, Insomma, che la mia opinione su questi temi non è più qualificata di quella di qualsiasi altro cittadino, pertanto non mi pare sia corretto sbandierarla da questo blog, dandole un rilievo che non ha. Tuttavia, noto che progressivamente le discussioni su internet ed altri media  si stanno incancrenendo nella misura in cui ci avviciniamo alla successiva grande ondata recessiva globale (della quale l'attuale tendenza al ribasso del prezzo del petrolio è un sintomo chiaro, visto che non è aumentata la produzione ma i prezzi scendono, ergo è la domanda che retrocede poiché si sta distruggendo a causa della recessione che avanza – e non dell'efficienza, come a volte si dice per confondere ancora di più). E ultimamente rilevo che c'è una certa confusione sul posizionamento politico, in chiave molto classica e partitica, di alcune cifre della discussione della crisi energetica in spagnolo, particolarmente le mie. Posizione partitica che non è rilevante in termini assoluti, come ho ripetuto tante volte, e che pregiudicherebbe la trasmissione di un messaggio di carattere trasversale e non partitico. Tuttavia, e nonostante tutte le premesse che finisco per esprimere, credo che sia interessante chiarire una questione chiave per capire perché il binomio capitalismo-comunismo è, a mio modo di vedere, superato e perché dovremmo esplorare altre dimensioni della discussione. Essenzialmente, parlerò del ruolo dello Stato così come lo vedo io con le mie conoscenze limitate, perché credo che quello che deve venire non potrà somigliare in nulla ai due sistemi apparentemente opposti anche se entrambi si basano su un forte statalismo.

Il ruolo dello Stato

Ci sono molte discussioni storiografiche ed antropologiche sull'origine e la funzione dello Stato, delle quali sono uno scarso conoscitore. Tuttavia, c'è una serie di caratteristiche che vengono attribuite con un sufficiente consenso allo Stato. Una di queste è che lo Stato è il depositario del diritto alla violenza legittima, cioè, è l'unico agente che ha diritto ad agire violentemente in difesa di un bene percepito come comune se non esiste nessun altro mezzo per garantirlo. Lo Stato, che in sé non è altro che una serie di istituzioni create ad un certo punto per la gestione di un paese, diventa, in virtù di questo e di altri diritti, un soggetto di diritto, cioè, un ente con diritti e doveri riconosciuto da altri soggetti di diritto come lui. Per dirlo più semplicemente, lo Stato spagnolo è riconosciuto come l'interlocutore valido per discutere qualsiasi cosa che abbia a che fare col territorio che amministra, cioè la Spagna.

Dato che lo Stato ha il monopolio della violenza legittima, qualsiasi violenza esercitata nel suo territorio da chiunque non sia lo Stato diventa illegittima. Perché le cose siano più chiare, lo Stato, usando il proprio potere legislativo, promulga leggi che esplicitano la non legittimità di quelle azioni per mezzo di disposizioni legali che stabiliscono condizioni penali per i contravventori. Cioè, lo Stato stabilisce con delle leggi quale castigo corrisponde a chi esercita un determinato tipo di violenza che non sia ricoperta dallo Stato stesso. Visto che lo Stato ha diritto di far violenza a qualsiasi aspetto della nostra convivenza (per esempio, sparando a un rapinatore di un supermercato se questo mette in pericolo la vita di altri , o anche negando alcuni assembramenti di massa e inviando polizia antisommossa a picchiare i manifestanti se non se ne vanno, o anche mandando in carcere coloro non pagano le proprie tasse), lo Stato ha un grande potere su tutti noi e per questo è giusto si definiscano in modo molto chiaro quali siano i fini dello Stato e che ci sia un grande consenso sociale sul fatto che questi fini siano legittimi. Qui viene uno degli aspetti più delicati del meccanismo statale: dato che nei sistemi democratici si riconosce che la sovranità è del popolo, tutto il potere in realtà proviene dal popolo e lo Stato, che è un soggetto a parte ma con il grande potere della violenza, come abbiamo detto, deve il suo potere a quel popolo che in realtà glielo ha consegnato. Pertanto, lo Stato deve interpretare correttamente il dettato del popolo e da qui proviene la grande importanza del fatto che le istituzioni dello Stato siano trasparenti e democratiche, come modo per assicurare che si sta compiendo la volontà del popolo.

Come sappiamo tutti, gli Stati moderni sono strutture di una grande complessità e per la loro gestione servono funzionari specializzati e con esperienza. Permettetemi un inciso qui: la parola “funzionario”, in Spagna come in altri paesi, ha molte connotazioni negative, perché la maggioranza della gente di solito la associa a “funzionari di sportello” indolenti che hanno dovuto sopportare nel corso di una qualche operazione con l'Amministrazione. Ed i think tank liberali, nella loro crociata per spogliare lo Stato di tutto ciò che non è monopolio della violenza (curiosamente, ma neanche tanto, come vedremo), sono soliti approfittare di questa cattiva percezione per usare la parola “funzionario” come un insulto. Tuttavia, chiunque abbia avuto a che fare con imprese di grandi dimensioni e complessità si sarà incontrato con amministratori che svolgono funzioni del tutto analoghe a quelle dei funzionari di sportello e di simile indolenza. Si vede che ciò che favorisce quest'atteggiamento (che in realtà non è nemmeno maggioritario ma è più visibile perché è un'attività a contatto col pubblico) è il tipo di lavoro amministrativo tedioso e senza incentivi. Per di più, si è soliti ignorare che la maggioranza dei funzionari sono maestri, professori universitari, medici, infermieri, letterati, militari, pompieri, ispettori fiscali, scienziati, guardie forestali, avvocati, procuratori, giudici e un lungo eccetera di tecnici più diversi il cui lavoro non sempre è visibile ma è fondamentale. A causa della complessità dello Stato che stiamo esponendo, è necessario mantenere questi corpi di funzionari specializzati, che logicamente non possono essere sostituiti allo stesso ritmo dell'alternanza democratica del paese. Per questo è richiesto che i funzionari lavorino in modo fedele al servizio del Governo di turno per il bene del paese, a prescindere dalle loro convinzioni partitiche. In cambio, viene loro riconosciuto uno statuto del lavoro speciale, che in da tempo e specialmente in questi tempi incerti viene percepito come un privilegio inadeguato.

Cosa succede quando un potere sufficientemente forte, tipicamente economico, corrompe qualche struttura dello Stato? Che lo Stato si scollega dalla fonte della sua legittimità, che è il consenso sociale, e si comporta a beneficio di questi altri interessi, naturalmente in modo subdolo per evitare una rivoluzione popolare. Non credo che valga la pena farvi degli esempi, perché sono sicuro che ve ne verranno in mente molti anche senza sforzarvi. Di fatto, il potere economico o di altro tipo non ha bisogno, per i propri fini, di corrompere troppo tutte le strutture dello Stato, perché per costituzione gli Stati tendono ad essere fortemente gerarchici e centralizzati. Se si ottiene il controllo del vertice (per esempio, del Governo) o delle strutture immediatamente inferiori (gli alti funzionari), tutto il resto del macchinario dello Stato lavorerà in modo cieco e implacabile a favore di questo potere corruttore, in applicazione della massima secondo la quale i funzionari di rango inferiore hanno l'obbligo di soddisfare e servire fedelmente ciò che viene loro richiesto in virtù della loro condizione di servitori pubblici, al di là delle loro preferenze ideologiche.

Pertanto, la struttura piramidale e non deliberativa dello Stato lo rende più vulnerabile all'ingerenza illegittima di agenti non popolari, il che dà accesso a questi agenti a forme incontrastate di violenza, non sempre fisica. Si tende a pensare che quando succede questo sia per un difetto concreto dello Stato o persino della società che lo partorisce. Al contrario, da mio punto di vista non sufficientemente documentato ma che si basa sull'osservazione empirica del fatto che non c'è uno Stato non corrotto ma solo gradi diversi di corruzione, credo che la corruzione sia una caratteristica intrinseca degli Stati. Inoltre, che il ruolo dello Stato sia andato rinforzandosi durante la storia in simbiosi con l'ingerenza sempre maggiore dei poteri economici, di modo che alla fine il difetto della corruzione statale non è accidentale ma strutturale.

Capitalismo e comunismo

I due grandi sistemi economici che hanno dominato la discussione durante il ventesimo secolo sono il capitalismo e il comunismo (usare questi nomi è una semplificazione semantica, ma per non rendere questa discussione più complicata, prego i più pignoli che me lo concedano). Al margine di queste discussioni teoriche, la pratica dell'attuazione di entrambi i sistemi è stata completamente subordinata all'esigenza di uno Stato e, nei casi in cui questo non c'era in quanto tale, si è finiti per crearlo a beneficio del sistema economico. A mio modo di vedere, il carattere statalista del comunismo e del capitalismo non è una coincidenza, ma una necessità di entrambi i sistemi per ottenere i propri fini. Nel caso del comunismo di taglio sovietico e simili, la necessità di uno Stato forte risulta evidente a tutti: stiamo parlando di un'economia pianificata, che impone restrizioni ad ogni tipo di attività e che supervisiona in modo estenuante i dettagli della vita pubblica e privata dei suoi cittadini. Nel caso del capitalismo, la percezione popolare, incoraggiata da certi settori della società, è che sia un sistema di libertà e che qualsiasi ingerenza dello Stato in realtà è dannosa. Parrebbe, pertanto, che il capitalismo sia in qualche modo contrario ad uno Stato forte. Niente di più lontano dalla realtà. L'economia capitalista moderna è più pianificata che mai e le percezione di libertà, di capacità elettiva, non è altro che una finzione costruita abilmente.

Molte grandi imprese hanno bisogno che lo Stato le sovvenzioni o le favorisca indirettamente costringendo i suoi cittadini a consumare i suoi prodotti o attraverso esenzioni fiscali. Ha tutta la logica del mondo: l'investimento che queste imprese fanno per influire sullo Stato aumenta i loro benefici, mentre lo Stato beneficia del controllo sociale che queste imprese assicurano, attraverso i loro lavoratori e il loro controllo sui mezzi di comunicazione. E qui la simbiosi Stato-capitale negli Stati capitalisti. I casi nei quali lo Stato favorisce in modo indecente le grandi imprese non sono isolati ma ripetuti: la grande industria aeronautica sta in piedi grazie agli ordini di aerei militari (se qualcuno mi può far passare il collegamento che ho lasciato qualche settimana fa su Facebook...), le grandi banche vengono salvate quando fanno investimenti massicciamente rovinosi, il settore delle auto è sostenuto da piani statali consecutivi di sussidio all'acquisto di un'auto nuova, alle industrie petrolifere riducono le tasse, le grandi società elettriche ottengono regolamenti favorevoli ai propri interessi e contro il bene comune... E questo per non parlare degli scandali ambientali, a volte con gravi conseguenze per la popolazione, taciuti persino con l'uso della forza, grazie al controllo di uno Stato piegato agli interessi di un capitale che non conosce frontiere (“Ricordate Bhopal”).

Non c'è grande settore dell'economia capitalista di oggi che non sia sostenuto dallo Stato e questo non succede da ora, per colpa della crisi, ma è da molto tempo che è così. Di fatto, se uno si scomoda a immergersi nei libri di Storia vedrà che nella configurazione dei moderni Stati capitalisti la cosa è sempre stata così. Ma è solo ora che la sconnessione dalla volontà del popolo sovrano è più evidente. Per esempio in Spagna con l'Iniziativa Legislativa Popolare che promuoveva il pagamento in natura delle abitazioni ipotecate (con l'appoggio di quasi un milione e mezzo di forme) è stata sostanzialmente ignorata nel suo iter parlamentare. Il disprezzo dello Stato della volontà del popolo non è a sua volta una cosa nuova, ma di sempre. Semplicemente prima la gente si guadagnava meglio da vivere e preferiva continuare così piuttosto che passarla nell'impresa di fronteggiare gli abusi dello Stato, cosa quasi sempre inutile. Se si guardano con attenzione le differenza fra comunismo e capitalismo, queste non sono tanto grandi. Il comunismo sovietico è stato molto meno efficace dal punto di vista produttivo ed ha generato molte inefficienze, in molti casi frutto della disaffezione delle classi popolari agli obbiettivi dello Stato (qualcosa di molto naturale se teniamo conto del fatto che lo stato sovietico rifiutava la sovranità popolare anche se formalmente diceva di difenderla). Tuttavia, con l'attuazione di certe misure chiave, il comunismo cinese si è evoluto negli ultimi decenni verso quote di produttività superiori a quelle dell'Occidente, dimostrando che un paese comunista può essere tanto capitalista-statalista quanto qualsiasi democrazia occidentale e senza il costo aggiuntivo (economico) della democrazia.

La crisi dello Stato, conseguenza della crisi energetica?

Si può sostenere che la crisi dello Stato, in particolare quelle degli stati capitalisti come quelli in cui viviamo, è cominciata già da molto tempo. Il sintomo più chiaro di questa crisi di legittimità è stato il rifiuto dell'ingerenza in guerre in terre straniere a difesa di interessi falsi ed assurdi, il cui massimo esponente è stato il movimento di rifiuto della guerra in Vietnam negli Stati Uniti alla fine degli anni 60 e all'inizio degli anni 70 del secolo scorso, o il rifiuto della seconda Guerra del Golfo all'inizio di questo secolo. E' anche legittimo sostenere che la proliferazione delle pubblicazioni indipendenti favorita dalla diffusione di internet alimenta il focus e l'indagine delle disfunzionalità dello Stato  e in un certo modo aggrava la percezione delle stesse, cosa che ha a sua volta una parte importante  di ragione. Tuttavia, ciò che sta rendendo intollerabile le situazione di disprezzo della volontà popolare che dura già da decenni sono le crescenti difficoltà economiche delle famiglie. E causato del malessere popolare, che non può già più beneficiare del benessere materiale, ciò che porta a mettere sistematicamente in discussione i diversi ruoli esercitati dallo Stato. Le citazioni dello Stato disfunzionale escono continuamente fuori nelle conversazioni quotidiane, con speciale enfasi sui casi concreti e personalizzati di corruzione, ma con un fondo di sfiducia generalizzata verso il buon lavoro e persino verso i fini dell'Amministrazione (un esempio di rabbiosa attualità in Spagna è il primo caso di infezione da ebola in Europa, verificatosi a Madrid per ciò che molti considerano una gestione negligente ed imprudente dell'assistenza a due rimpatriati). In questi giorni è frequente che un notizia falsa apparsa su una pubblicazione satirica venga presa erroneamente da alcuni come vera, semplicemente perché l'atrocità descritta credibile in mezzo all'attuale degrado (nel quale, per esempio, si vede come normale ed accettabile abbandonare bambini la cui famiglia non ha altro sostegno se non quello della mensa scolastica durante i mesi estivi).

Pertanto, credo abbia fondamento dire che la messa in discussione dello Stato e il clamore crescente per la sua riforma, per la sua rigenerazione, provenga in gran parte dello scontento causato dalla crisi economica interminabile che stiamo vivendo. Crisi che, in ultima istanza, non potrà mai finire a causa della decrescita energetica, per colpa della crisi energetica. Potrà essere mantenuto uno Stato centralizzato e complesso in una situazione di ritorni decrescenti, di diminuzione dell'attività economica, di diminuzione delle entrate? E' chiaro che la risposta è no se la diminuzione è grave. E dato il corso prevedibile degli eventi (senza bisogno di scomodare scenari più drammatici) sembra evidente che gli Stati capitalisti ad un certo punto giungeranno alla loro fine. Ed il momento chiave che segna la loro scomparsa è il momento in cui perdono il loro potere principale: il monopolio della violenza. Quando lo Stato smette di pagare gli stipendi alla polizia smetterà di poter imporre la sua volontà e in quel momento smetterà praticamente di esistere.

Il futuro post-statalista

Che futuro attende i nostri paesi dopo la fine dei loro rispettivi Stati? Nessuno lo sa con certezza e questo tema, su quello che hanno teorizzato gli esperti da decenni, è ancora meno propizio per le mie divagazioni personali del tutto non autorizzate. Forse alcuni paesi conserveranno Stati più semplificati, forse in altri si recupereranno forme di organizzazione precedenti, molte delle quali democratiche; altri paesi, disgraziatamente, soccomberanno sotto un nuovo giogo feudale e, in ogni caso, la disgregazione sarà la norma. Ciò che mi è chiaro è che il futuro dipenderà dalle decisioni che prendiamo ora. Niente è perduto se non vogliamo che lo sia. Forse il primo passo per sapere dove si trova questo futuro che interessa a tutti costruire, tanto l'operaio della fabbrica quanto il suo titolare, è uscire dai vecchi schemi di discussione e cominciare a guardare dimensioni del dibattito lungamente ignorate, come per esempio quelle che trattano dei limiti ecologici di questo pianeta che dobbiamo condividere.

Saluti.
AMT

martedì 25 novembre 2014

La dieta dimagrante del Leviatano - 2.

di Jacopo Simonetta

Nel precedente post sull'argomento "Leviatano" ho sostenuto che la crescita della società globale ed il deterioramento quali-quantitativo delle risorse ha avviato un processo di vera e propria auto-digestione della società,  a partire dalle categorie sociali più facilmente e remunerativamente attaccabili.   Se ammettiamo che questo sia un destino oramai ineluttabile, sorgono due domande importanti:


1 - Che effetto avrà questo sulle future generazioni?  

2 - Come possiamo difenderci?

Per quanto riguarda la prima domanda, occorre ricordare che un qualsiasi sistema vivente ha una certa capacità di recupero dopo uno shock.   E’ quello che chiamiamo “resilienza”.    In parole povere, la capacità di rialzarsi dopo una caduta o di guarire da una ferita.   Una capacità di recupero che può variare moltissimo, principalmente in ragione di due ordini di fattori: la capacità di adattamento del sistema e le riserve accumulate prima della crisi.  

A livello di ecosistemi, la resilienza dipende soprattutto dalla biodiversità e dalla versatilità delle specie-chiave del sistema, oltre che dalle riserve di acqua e di fertilità dei suoli.   Per fare un esempio, il taglio a raso di un bosco comporta un trauma fortissimo per l’ecosistema; ma se vi è una buona varietà di specie arboree, se queste hanno sistemi di recupero efficaci (semi persistenti, polloni, ecc.) e se i suoli non vengono danneggiati in modo sensibile, il bosco ricrescerà simile a come era prima.   Se, invece, sono presenti poche specie vulnerabili al taglio e/o se i suoli vengono erosi, la foresta potrebbe non tornare mai più.

A livello di economie complesse valgono gli stessi principi, ma le riserve sono in gran parte costituite dai patrimoni dei cittadini, esattamente quel “tessuto adiposo” che il Leviatano ha prodotto e che adesso sta riassorbendo.   Questa non è certo la principale minaccia per l’umanità.  La maggior parte dei nostri avi se la sono cavata abbastanza bene anche senza patrimoni, ma per noi il possesso di oggetti e denaro costituisce una necessità vitale, oltre che un punto di riferimento ed un valore identitario fondamentale.   E’ l’intera nostra civiltà che è stata costruita su questo valore ed è quindi normale che con essa scompaia, ma occorrerà riempire in vuoto che lascia e non sarà facile.
Alla seconda domanda (come possiamo difenderci?) penso che si debba rispondere “poco e male”.   Sebbene la maggior parte delle persone, in occidente, abbiano ancora buoni margini di benessere materiale, le possibilità di difenderlo dall’ auto-digestione della società di cui facciamo parte sono molto limitate.   Facciamo due esempi di beni-rifugio classici: le proprietà immobiliari ed i metalli preziosi.

Le proprietà immobiliari (case e terreni) costituiscono la forma di patrimonio di gran lunga più vulnerabile in quanto non possono essere nascoste.   E’ quindi perlomeno probabile che l’aumento del “pizzo” su di esse continuerà a salire finché non saranno state distrutte od acquistate da soggetti abbastanza in alto nella scala sociale da potersi difendere efficacemente.   O magari da essere essi stessi elementi costituenti di quegli “organi” che la struttura tende a salvare, sacrificandone altri.   L’Holomodor (la carestia in Ucraina negli anni 1930) è stato un evento particolarmente efferato di appropriazione di risorse, ma risultati analoghi sono stati perseguiti ed ottenuti più volte nella storia, senza bisogno di giungere allo sterminio.   I pogrom, gli insediamenti coloniali e le “pulizie etniche” ne sono esempi, fra i tantissimi possibili.

I metalli preziosi possono invece essere nascosti, ma non per questo sono scevri da rischi.   Tanto per cominciare possono essere rubati;  oppure il governo può imporne la requisizione e vietarne il commercio.   In questo caso, sarebbe naturalmente possibile conservarli segretamente, a condizione che del loro acquisto non esista traccia, ma comunque sarebbero inutilizzabili.   Tutte cose più volte accadute nella storia, anche in situazioni socio-economiche meno estreme di quelle che presumibilmente si verificheranno nel corso dei prossimi decenni in molte parti del mondo.

Ciò non significa, naturalmente, che beni immobili o metalli siano certamente inutili, o addirittura pericolosi.   Significa che è possibile che si rivelino utili o addirittura vitali in determinate circostanze, mentre risulteranno inutili o nocivi in altre e non possiamo sapere quali saranno le condizioni in cui ognuno di noi si troverà durante la rapidamente mutevole situazione storica dei prossimi decenni.

Ma se non possiamo difenderci dal Leviatano semplicemente perché siamo parte integrante di esso, non potremmo uscirne?   Una tentazione che si sta diffondendo.   Del resto, ritirarsi in solitudine od in piccole comunità in luoghi remoti è sempre stata una delle strategie di sopravvivenza durante le fasi di auto-digestione delle civiltà che ci hanno preceduto.   Ma neppure questa strategia è scevra di rischi ed è difficilmente attuabile in un mondo in cui luoghi remoti praticamente non ne esistono più.

Oggi si parla molto di “comunità resilienti” di varia natura ed esperimenti interessanti vengono condotti in varie parti del mondo, ma soprattutto in Occidente sia per la maggiore libertà d’azione di cui godiamo, sia per le maggiori risorse economiche di cui possiamo ancora disporre.   Ma porsi al di fuori dei circuiti commerciali che costituiscono il sistema vitale del Leviatano è un fatto decisamente sovversivo che tende a minare le fondamenta stesse del sistema.   Un sistema che finora è stato abbastanza sicuro di se da permettere a singoli od a piccoli gruppi di organizzarsi una vita semi-autonoma.   Ma via via che la difficoltà di alimentare i suoi sistemi vitali aumenterà, è molto probabile che certi comportamenti non saranno più tollerati.   Già oggi è praticamente impossibile avviare un qualsiasi esperimento di resilienza pratica senza contravvenire a qualche regolamento; è probabile che in futuro le regole si faranno più stringenti e complicate, i controlli più capillari e severi.
Rimane la reazione del topo nell’angolo, ovverosia ribellarsi cercando di uccidere il mostro che ci divora.  

Nel 2011 una serie di cattivi raccolti a livello mondiale e la conseguente speculazione sui prezzi delle granaglie hanno scatenato rivolte popolari in diversi paesi, alcuni dei quali nostri confinanti o quasi.   Al di la delle peculiarità di ogni situazione, si è trattato dell’esplodere dell’esasperazione di masse di gente stanca di farsi digerire da classi dirigenti corrotte ed incapaci.   Ma come è andata a finire lo abbiamo visto: in pratica solo la Tunisia, per ora, è riuscita a dotarsi di un sistema politico migliore del precedente, sia pure a prezzo di un drastico peggioramento della già pessima situazione economica.   In tutti gli altri paesi le “primavere” si sono rapidamente trasformate in conflitti endemici.
In sintesi, pare inevitabile che nei prossimi decenni la civiltà industriale sopravviva riassorbendo le riserve che aveva creato negli anni di “pasciona”.  

Di conseguenza, l’estrema povertà diventerà la regola per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, compresa la maggioranza di noi.    E non pare che vi siano scappatoie realistiche a questo destino.   Scoppi di violenza saranno inevitabili, ma potranno solo contribuire a distruggere ulteriormente quelle riserve che avrebbero potuto assicurare una buona base di partenza per ricostruire le civiltà del futuro.

Ma abbiamo detto che la resilienza dipende da due ordini di fattori: le riserve e la capacità di adattamento.    Se poco o nulla delle riserve potrà essere salvato, possiamo fare qualcosa per la capacità di adattamento?

Probabilmente si.   Magari non tanto da cambiare il destino dell’umanità, ma abbastanza da influenzare quello di persone, famiglie e, forse, interi paesi.
Da cosa dipende dunque questa capacità?   Fondamentalmente dalla rapidità con cui ci si adatta al divenire della situazione ambientale.   Dunque, rapportato alla nostra specie,dalla dinamicità culturale, ma soprattutto alla disponibilità a rimettere in discussione più e più volte gli assunti sulla cui base elaboriamo i nostri ragionamenti.    O, per dirla con gergo tecnico, dalla nostra disponibilità a cambiare rapidamente e ripetutamente i nostri archetipi.

Una cosa però tanto facile a dirsi quanto difficile a farsi.   Accumulare competenze “post-picco” come l’orticoltura sinergica, l’auto-difesa, la farmacopea galenica, la follatura della lana, la concia delle pelli e quant’altro sono infatti tutte cose importantissime, ma solo all’interno di una quadro psicologico e spirituale capace di resistere e reagire costruttivamente ad eventi che metteranno seriamente alla prova il nostro modo di percepire e concepire la realtà.

Se prendiamo lo schema di Daly, possiamo leggerlo in due modi diversi.    Se ci concentriamo sulle necessità, è ovvio che si deve leggere dal basso in alto, come la “piramide di Maslow” da cui è derivato:

Occorre prima di tutto accedere a delle risorse che, tramite le nostre capacità dovranno essere trasformate in beni e servizi.    Con questi, la politica e l’economia potranno assicurare, nei limiti del possibile, benessere materiale e coloro che saranno abbastanza “ben pasciuti” e protetti avranno modo di dedicarsi a cose come la scienza, l’arte, la filosofia.   E’ di questo che sostanzialmente si occupa l’ormai vasta letteratura “post-picchista”.

Ma se concentriamo l’attenzione sulle capacità necessarie per fare tutto ciò, lo schema deve essere letto esattamente al contrario: dall’alto verso il basso:  

Solo chi dispone di un sistema di valori capace di rimanere funzionale in condizioni di grave stress sarà in grado di elaborare dei comportamenti socialmente utili ed in tal modo contribuire a costruire quel capitale sociale che consente un uso del capitale materiale tale da conservare e, nei limiti del possibile, rigenerare le risorse.

In altre parole coloro che pongono al vertice dei propri valori il progresso tecnologico, il benessere materiale, i viaggi spaziali od altri prodotti della civiltà industriale, non troveranno molte ragioni per continuare a vivere.

Ma non bisogna farsi illusioni:
«In una tale condizione non c'è possibilità di alcuna attività di carattere industriale poiché il frutto di essa rimarrebbe incerto e di conseguenza non c'è coltivazione della terra, non c'è navigazione, non c'è uso di beni che possono essere importati attraverso il mare, non ci sono costruzioni confortevoli, non si fanno strumenti per spingere e trasportare cose che richiederebbero molta forza, non si fa computo del tempo, non ci sono arti, né letteratura, non esiste una società, e quella che è la cosa peggiore fra tutte è il continuo timore, e il pericolo di una morte violenta; e la vita dell'uomo è solitaria, povera, sudicia, bestiale e breve.» (traduzione Wikipedia)

Sicuramente è il  passo più celebre del filosofo inglese, ma non descrive la vita dell’uomo primitivo, com’egli pensava; non più di quanto la descrivesse il mito del “buon selvaggio” di Rousseau.   Ho l’impressione che descriva invece molto bene l’uomo post-industriale.   Ma non per sempre.    L’esperienza insegna che situazioni di grave stress (guerre, carestie, miseria, ecc.) possono infatti evocare tanto il meglio quanto il peggio di noi.   Ed il peggio tende a prevalere nei tempi brevi, il meglio nei tempi lunghi per inderogabili ragioni evolutive:   Le persone che adottano un comportamento egoista possono infatti cavarsela meglio di coloro che adottano un comportamento oculatamente altruista, ma il contrario vale per le comunità  di cui costoro fanno parte.   E l’unità di sopravvivenza dell’umanità non è l’individuo, bensì la comunità.




lunedì 24 novembre 2014

Il teatro del picco del petrolio

DaResource Crisis”. Traduzione di MR

di Ugo Bardi




Nell'antichità classica, le rappresentazioni teatrali come la farsa“Atellana” erano basate su canovacci standardizzati e personaggi tipo, identificati dalle maschere che indossavano in scena. Non erano diverse dalle nostre attuali telenovelas e sono un buon esempio della nostra tendenza ad interpretare il mondo in termini narrativi. 


Sono un po' in ritardo per la prossima presentazione della conferenza sul picco del petrolio (*). Per fortuna, sembra che non mi sia perso molto: il relatore deve aver cominciato solo pochi minuti prima che arrivassi e mi sono perso soltanto l'introduzione del presidente. Quindi mi rilasso nella mia sedia, mentre il relatore va avanti con la sua presentazione.

La prima cosa che noto è il modo in cui è vestito; non proprio il modo standard per queste conferenze. Gran parte dei relatori, finora, sono stati fisici, che hanno un modo di vestire tipico: sembrano fisici anche se indossano una cravatta, e di solito non lo fanno. Questo relatore, invece, non solo indossa una cravatta, ma indossa anche una giacca a doppio petto (o così mi pare – anche se non è un doppio petto, lo indossa come se lo fosse). E non è semplicemente il modo in cui veste, è tutta la sua postura e lo stile. Tutti gli altri a questa conferenza sul picco del petrolio hanno parlato da in piedi, mostrando immagini e parlando senza appunti. Invece, lui è seduto, non mostra immagini e legge da un taccuino che ha piazzato sul tavolo. Se è diverso dagli altri nel modo in cui appare, anche il suo discorso è completamente diverso dagli altri di questa conferenza. I fisici tendono a mostrare dati e numeri, grafici e tabelle, al punto di risultare noiosi. Lui no. Non mostra dati, o grafici, o tabelle. Non li menziona nemmeno i dati. Racconta una storia.

Ci porta in una specie di tour dei produttori di petrolio. Ogni paese viene è descritto come se fosse un personaggio sulla scena del teatro del mondo: gli americani, un po' duri, ma che fanno cose giuste e di successo nel raggiungimento dell'indipendenza energetica per mezzo delle loro tecnologie avanzate; i sauditi, in qualche modo ambigui, ma potenti in virtù delle loro risorse: i russi, aggressivi nel loro tentativo di ricostruire il loro vecchio impero. E gli europei, ben intenzionati ma irrimediabilmente ingenui con la loro insistenza sulle energie rinnovabili. La storia va avanti mentre ogni personaggio in scena interagisce con gli altri. Riusciranno gli europei a sbarazzarsi della loro dipendenza dal gas russo? Saranno in grado gli americani di superare i sauditi come i leader mondiali della produzione di petrolio? Cosa faranno i sauditi per conservare la loro leadership?

Di tanto in tanto, i dati riescono ad apparire nella narrazione, ma quando lo fanno, sono sbagliati. Per esempio, il relatore ci racconta che estrarre un barile di petrolio in Arabia Saudita costa 2-3 dollari al barile (sicuro...., forse 30 anni fa). E ci racconta che i sauditi devono solo aprire i rubinetti dei loro pozzi per aumentare la produzione di 2, 3 o persino di 5 milioni di barili al giorno (sì, certamente...) Ed alcuni concetti chiave non vengono mai menzionati. Nessuna traccia del picco del petrolio, nessun accenno al problema dell'esaurimento; il cambiamento climatico sembra riguardare un'altra conferenza, da tenersi su un altro pianeta.

Il discorso si chiude con il pubblico chiaramente perplesso. Poi comincia la sessione delle domande e risposte e qualcuno chiede al relatore cosa pensi del picco del petrolio. Lui risponde per prima cosa dicendo che non è un geologo, ma un economista, confermando in questo modo (se mai ce ne fosse stato bisogno) che un uomo non capirà mai un concetto se il suo stipendio dipende dal non capirlo. Poi aggiunge che “si afferma da trent'anni che il picco del petrolio sta arrivando” e, se questo non fosse banale a sufficienza, menziona anche la vecchia battuta di Zaki Yamani, “l'età della pietra non è finita perché sono finite le pietre”. Ciò è sufficiente per fermare ulteriori domande significative. La cosa finisce presto e lui si alza e lascia la sala mentre la conferenza continua con un altro relatore.

Non c'è nessuna esperienza così negativa dalla quale non si possa almeno imparare qualcosa. Cosa possiamo allora imparare da questa? Da un lato, il relatore in giacca a doppio petto aveva un'esperienza simmetrica ed opposta alle esperienze che io stesso ho avuto. A volte, quando ho cercato di presentare il concetto del picco del petrolio ad un pubblico che indossava doppiopetti, ho avuto la netta sensazione che mi stessero guardando come se fossi un alieno di Betelgeuse-III, appena atterrato nel parcheggio col mio disco volante. Se si dice “scontro di assoluti”, ci si potrebbe tranquillamente riferire a questo tipo di esperienze. Ma c'è qualcosa di terribilmente sbagliato, qui: leggiamo tutti i giornali, abbiamo tutti accesso agli stessi dati su Internet. Quindi come può essere che si possa arrivare a interpretazioni e conclusioni così diverse?

Ho rimuginato queste considerazioni fra me e me ed alla fine mi è venuto in mente: non è una questione di dati, è una questione di come le persone li elaborano! E la maggior parte delle persone che indossano doppiopetti pensano proprio come pensa la maggioranza delle persone: pensano in termini narrativi, non in termini quantitativi.

Pensate alle nostre origini remote: i cacciatori-raccoglitori preistorici. Di che tipo di abilità avevano bisogno i nostri antenati per sopravvivere? Be', una era la capacità di costruire attrezzi, dalle asce di pietra agli ami da pesca. Ma, molto più importante di questo erano le capacità sociali necessarie per l'arrampicata della gerarchia tribale, per diventare capi e sciamani. Ciò non è cambiato molto con l'arrivo della struttura sociale che chiamiamo “civiltà”. Negli annali della civiltà sumera, abbiamo memoria dei nomi di re che risalgono a migliaia di anni fa, ma nessun accenno al nome della persona che ha inventato la ruota durante quel periodo. Anche oggi, gli ingegneri sono governati dai politici, non il contrario.

Quindi il modo comune di interpretare il mondo è in termini narrativi, assegnando ruoli alle persone come se fossero attori che interpretano il loro ruolo in scena. E' il teatro della vita, non diverso dal teatro di scena, non diverso dalle varie forme di narrazione che ci circondano: racconti, film, telenovelas e cose simili. E' tipico della maggior parte delle persone ed è particolarmente forte nei politici, dove i vari attori vengono classificati nei termini di una visione narrativa del loro ruolo. Per esempio, Saddam Hussein è stato uno dei personaggi che dovevano interpretare il ruolo del cattivo. Una volta lanciato in quel ruolo, non c'era bisogno di prove del fatto che stesse accumulando armi di distruzione di massa per dar inizio ad una guerra. Lui era il male e questo era abbastanza. E non c'è stata indignazione quando è stato scoperto che le armi di distruzione di massa non esistevano. Ciò non ha cambiato il ruolo di cattivo di Saddam Hussein nella narrazione.

Gli scienziati, tuttavia, tendono a pensare in un modo diverso, specialmente coloro che studiano i campi conosciuti come “scienze fisiche”. Tuttavia, il loro modo di ragionare è difficile da capire per gran parte delle persone. Pensate solo all'affermazione comune usata per negare il ruolo umano nel cambiamento climatico, “gli scienziati erano preoccupati del raffreddamento globale nel 1970”. Indipendentemente dal fatto che sia vero o no (lo è solo marginalmente), ciò illustra l'abisso di differenza fra il modo comune di interpretare la realtà e quello scientifico. Gli scienziati credono di poter cambiare idea se i nuovi dati contraddicono le vecchie interpretazioni. Ma questo non è quello che fanno gli eroi nei racconti e nei film in cui, tipicamente, un personaggio comincia con una certa idea, combatte per quella per tutta la storia contro tutte le prove contrarie ed alla fine trionfa.

Quindi, nessuno presterebbe lontanamente attenzione a ciò che dicono gli scienziati, se se non per il fatto che occasionalmente inventano giocattoli che la gente sembra apprezzare molto, dagli smartphone alle testate nucleari. Ma quando si discostano dal loro ruolo di costruttori di giocattoli, le loro opinioni perdono di importanza nel dibattito. Anche se si tenta di argomentare che una vasta maggioranza di scienziati (forse il 97%) è d'accordo sul fatto che il cambiamento climatico generato dagli esseri umani è una realtà, non si ottiene niente. Anche una vasta maggioranza fra gli scienziati è una tale minuscola minoranza della popolazione generale che per la maggior parte della gente non vale la pena farci caso (compresi politici e decisori).

Alla fine, raccontare storie di solito ha più successo che argomentare usando i dati e i modelli. Infatti, dopo la conferenza, mi è stato detto che l'economista in doppiopetto è una persona molto influente e che i decisori ad alto livello del governo chiedono spesso a lui consigli in materia energetica. Evidentemente, è bravo a raccontar loro una bella storia.

Non tutte le belle storie hanno un bel finale, ma le belle storie possono sempre insegnarci qualcosa. Quindi, cosa possiamo imparare da questa? Una cosa è che abbiamo sbagliato tutto con l'idea di usare i dati per convincere le persone della realtà di cose come il picco del petrolio e il cambiamento climatico antropogenico. Sì, è possibile spostare leggermente le credenze delle persone nella giusta direzione se troviamo i modo di esporli per qualche tempo ai dati ed alla loro interpretazione. Ma il tipo di impegno che possiamo ottenere in questo modo è debole ed inefficace. Viene facilmente distrutto anche dai più brutali e primitivi metodi di propaganda: assegnare agli scienziati la parte dei cattivi della storia fa miracoli: come gli stessi specialisti in propaganda confessano, “fare i cattivi paga”. E una volta che una narrazione si è fatta strada nella mente delle persone è estremamente difficile – in pratica impossibile – snidarla da lì. Avete notato come, in gran parte delle trame, i cattivi rimangono cattivi sempre? E' come se fossero i personaggi di una vecchia farsa  Atellana, che indossano la maschera appropriata al cattivo (o gli scienziati che indossano i loro nomignoli di fanatici tecnologici – geeks - o di teste d'uovo).

Un'altra cosa che possiamo imparare da questa storia è che siamo tutti umani e che nessuno di noi pensa come le macchine o come i robot. Gli scienziati possono essere formati a ragionare in termini di dati, ma anche per loro è difficile farlo sempre. Ragionare in termini narrativi ha accompagnato i nostri antenati per centinaia di migliaia di anni. Se questa cosa è ancora fra noi è perché ci ha reso un buon servizio per questo lungo periodo di tempo. Ciò che conta non è che il mondo possa essere visto come una storia che si dipana, ma quale storia si sta dipanando. Ed esite una storia diversa del mondo da raccontare, una storia infinitamente superiore all'attuale trama brutale che ci racconta che tutti i problemi che abbiamo sono legati al cattivo del giorno e che quando lo avremo bombardato e fatto a pezzi tutto andrà di nuovo bene. Questa è la trama dei racconti di serie B: ha poco a che fare con la letteratura, il tipo di letteratura che cambia le persone in meglio, che cambia il mondo in meglio. Una storia migliore del mondo dice che il mondo non è nostro nemico. Il mondo è, piuttosto, il nostro compagno (**): può fornirci beni generosi ma, come un compagno umano e com'è la materia di così tante storie, quello che facciamo al nostro compagno ci torna indietro. Se danneggiamo il mondo che ci circonda (o la “Natura” o “l'Ecosistema”, o in qualunque modo lo vogliate chiamare) ne saremo a nostra volta danneggiati. E ciò sta già accadendo. Questa è la storia che stiamo vivendo: possiamo essere i buoni o i cattivi, dipende da noi.



(*) Questo post è un resoconto fedele di una presentazione a un recente convegno sul picco del petrolio. Non faccio nomi, date, o luoghi; ma quelli che erano con me in quell'occasione riconosceranno senza problemi il relatore di cui parlo
 
(**) Il concetto di Natura come compagna della specie umana può essere trovato, per esempio, nel libro “Economia sacra” di Charles Eisenstein.

domenica 23 novembre 2014

Lo Smithsonian rilascia una dichiarazione sul cambiamento climatico: “Condizionerà ogni cosa”.

Da “Climate Crocks”. Traduzione di MR. 


Con 30 anni di ritardo ma significativamente, in quanto questa rivista si trova su parecchi tavoli conservatori.

Smithsonian Magazine:

Mentre gli esseri umani continuano a trasformare il pianeta a un ritmo sempre più veloce, la necessità di informare ed incoraggiare il cambiamento è diventata sempre più urgente. La situazione sta diventando critica per le specie selvatiche e per la protezione della specie umana. Riconoscendo questa urgenza, lo Smithsonian ha formulato la sua prima dichiarazione ufficiale sulle cause e gli impatti del cambiamento climatico.

Con particolare enfasi sui 160 anni di storia dello Smithsonian e sulla tradizione di raccolta, ricerca e monitoraggio globale, la dichiarazione fornisce una valutazione coraggiosa: “Le prove scientifiche hanno dimostrato che il clima globale si sta riscaldando come risultato dell'aumento dei livelli di gas serra atmosferici generati dalle attività umane”.

“I 500 scienziati dello Smithsonian che lavorano in tutto il mondo vedono l'impatto di un pianeta che si riscalda ogni giorno nel corso dei loro diversi studi”, recita la dichiarazione. “Un campione delle nostre ricerche comprende l'insegnamento del popolo Yupik dell'Alaska, che vedono il riscaldamento come una minaccia alla loro cultura vecchia di 4000 anni; i biologi marini tracciano gli impatti del cambiamento climatico sui delicati coralli delle acque tropicali e gli ecologisti delle coste ricercano i molti modi in cui il cambiamento climatico colpisce la Baia di Chesapeake”.

“Ciò di cui ci siamo resi conto allo Smithsonian è che molte persone pensano che il cambiamento climatico sia solo un tema ambientale”, dice John Kress, sostituto sottosegretario alla scienza allo Smithsonian. “E' molto più di questo. Il cambiamento climatico condizionerà ogni cosa”.

Dichiarazione dello Smithsonian sul clima:

In combinazione col simposio di un giorno “Vivere nell'Antropocene: prospettive per clima, economia, salute e sicurezza”, lo Smithsonian ha rilasciato la seguente dichiarazione sul cambiamento climatico:

Il cambiamento climatico rapido e di lunga durata è un tema di crescente preoccupazione quando il mondo guarda al futuro. Scienziati, ingegneri e pianificatori stanno cercando di capire l'impatto dei nuovi schemi climatici, lavorando per preparare le nostre città contro i pericoli dell'aumento delle tempeste e per prevenire le minacce alle nostre forniture di cibo ed acqua  ed alla sicurezza nazionale. Le prove scientifiche hanno dimostrato che il clima globale si sta riscaldando in conseguenza agli aumentati livelli di gas serra generati dalle attività umane. C'è un bisogno pressante di informazione che migliorerà la nostra comprensione delle tendenze climatiche, determinerà le cause dei cambiamenti che stanno avvenendo e diminuirà i rischi posti agli esseri umani ed alla natura.

Il cambiamento climatico non è nuovo per lo Smithsonian – i nostri ricercatori hanno investigato gli effetti del cambiamento climatico sui sistemi naturali per più di 160 anni. Guardiamo i processi avvenuti milioni di anni fa insieme agli sviluppi che hanno luogo nel sistema climatico di oggi.

Lo Smithsonian risponde al cambiamento climatico in quattro modi: aumentando la conoscenza dell'ambiente naturale ed umano attraverso la ricerca, rendendo disponibili al pubblico le nostre scoperte, proteggendo la risorsa principale dell'Istituto – la collezione nazionale, e facendo funzionare le nostre strutture in modo sostenibile.

La ricerca sta alla base di tutto ciò che facciamo. I ricercatori usano la collezione senza paragoni dello Smithsonian di più di 138 milioni di oggetti e campioni, insieme alla nostra rete globale di stazioni di monitoraggio marine e terrestri, per esaminare il cambiamento climatico attraverso lenti molteplici. Gli scienziati di ricerca dello Smithsonian usano sensori satellitari e sul posto per studiare i cambiamenti nella composizione dell'aria, dell'acqua e del suolo. Studiano la storia del clima sui siti archeologici e geologici in tutto il mondo. Infine, eccellono negli studi di riferimento portati a termine nei decenni e che sono riconosciuti come essenziali per tracciare gli effetti a lungo termine del cambiamento climatico.

I 500 scienziati dello Smithsonian che lavorano in tutto il mondo vedono l'impatto di un pianeta che si riscalda ogni giorno nel corso dei loro diversi studi. Un campione delle nostre ricerche comprende l'insegnamento del popolo Yupik dell'Alaska, che vedono il riscaldamento come una minaccia alla loro cultura vecchia di 4000 anni; i biologi marini tracciano gli impatti del cambiamento climatico sui delicati coralli delle acque tropicali e gli ecologisti delle coste ricercano i molti modi in cui il cambiamento climatico colpisce la Baia di Chesapeake”.

La diffusione di conoscenza ottenuta attraverso la ricerca è una responsabilità pubblica dello Smithsonian. I nostri scienziati comunicano continuamente con la comunità degli studiosi attraverso pubblicazioni ed interazioni accademiche. Allo stesso tempo, la combinazione unica dello Smithsonian di musei e gamma interconnessa di mostre itineranti, pubblicazioni, strumenti basati su media e Web, forniscono le piattaforme per raggiungere centinaia di milioni di persone ogni anno in tutto il mondo. Il nostro obbiettivo è quello di spiegare in termini chiari ed oggettivi le cause e gli effetti del cambiamento climatico così come documentato nella nostra ricerca e in quella dei nostri colleghi.

Lo Smithsonian ha assemblato collezioni di campioni scientifici senza precedenti in qualsiasi altro luogo del mondo. Queste collezioni forniscono una documentazione inestimabile delle culture e della biodiversità globale per gli scienziati, gli studiosi e per il pubblico. Meteo estremo, aumento dei livelli del mare e tempeste pongono minacce significative ai musei ed ai centri di ricerca che ospitano queste collezioni, molte delle quali posizionate a bassa altitudine. Il nostro incarico è di proteggere, ora e nel futuro, questa risorsa insostituibile dagli impatti del cambiamento climatico ed a altri rischi.
Ci sforziamo sempre di operare in modi che minimizzino l'impronta ambientale dello Smithsonian, soddisfacendo gli obbiettivi dell'Istituto di diminuire l'uso di acqua potabile e combustibili fossili, di ridurre le emissioni dirette ed indirette di gas serra e di aumentare l'uso di energia rinnovabile. Il Museo Nazionale di Storia e Cultura Africana e Americana si avvia ad essere il museo dello Smithsonian “più verde” fino ad oggi, progettato per ottenere una valutazione LEED Gold, ed il nuovo edificio del Laboratorio Mathias nel Centro di Ricerca Ambientale dello Smithsonian è sulla buona strada per ottenere la certificazione LEED Platinum.

Lo Smithsonian continuerà, come ha fatto per più di un secolo e mezzo, a produrre informazione scientifica di base sul cambiamento climatico e a esplorare il significato culturale e storico di questi cambiamenti. L'urgenza del cambiamento climatico richiede che aumentiamo ed espandiamo i nostri sforzi per aumentare la conoscenza pubblica e che ispiriamo altri attraverso l'educazione e con l'esempio. Viviamo in quello che è stato definito Antropocene o “l'era degli esseri umani”. Lo Smithsonian è impegnato ad aiutare la società a fare le scelte sagge necessarie per assicurare che le future generazioni ereditino un mondo diversificato che sostenga i nostri ambienti naturali e le nostre culture nei secoli a venire.

venerdì 21 novembre 2014

La dieta dimagrante del Leviatano - 1.

di Jacopo Simonetta.

In un precedente post avevo confrontato la civiltà capitalista attuale ad un organismo coloniale di dimensioni planetarie che ho chiamato Leviatano.   Non si tratta di una semplice metafora.  
Innanzitutto l’idea che l’insieme dei singoli cittadini costituisca un “corpo sociale” unico che agisce come un meta-individuo è di Hobbes: uno dei padri fondatori del pensiero illuminista e dunque della nostra civiltà attuale.   In secondo luogo, Ilya Prigogine ci ha insegnato che, dal punto di vista termodinamico, tanto i singoli individui quanto le società nel loro complesso sono delle “strutture dissipative”.

 Ciò significa che tanto i singoli uomini quanto le società nel loro insieme sono fondamentalmente degli aggregati di materia che si auto-organizza in modo da assorbire e dissipare la maggior quantità possibile di energia (F. Roddier Thermodynamique de l'évolution : Un essai de thermo-bio-sociologie 2012).  
Ciò che cambia è il grado di complessità fra l’individuo e la società, un grado che cresce più che linearmente con l’accrescimento della struttura stessa ed il crescere della complessità comporta l’apparire di quelle che si chiamano “proprietà emergenti”: proprietà che si trovano nel “tutto”, ma non nelle sue “parti”.    E la proprietà emergente delle società umana è quella cosa che chiamiamo “civiltà”.    In estrema sintesi, vi è dunque una correlazione molto forte fra quantità di energia dissipata, dimensioni e complessità delle società, complessità della civiltà che la società produce.   Fattori culturali e spirituali plasmano civiltà diversissime, ma il grado di complessità che queste raggiungono rimane comunque legato direttamente alla quantità di energia che questa è in grado di assorbire e dissipare.   Dunque, ogni singolo individuo umano ha una sua esistenza autonoma, ma la civiltà è il prodotto di un’interazione simbiotica fra tutti i membri della società che costituisce, a tutti gli effetti, una meta-struttura dotata di individualità e capace di reagire agli stimoli esterni in modo da perseguire i suoi scopi.

Una complicata argomentazione per dire una cosa semplice: Hobbes aveva visto giusto.

Dunque il Leviatano non è una metafora, bensì una realtà oggettiva e ciascuno di noi ne fa parte.   E come tutte le strutture viventi, nei secoli si è evoluto.   Vivendo nell’epoca in cui le monarchie assolute facevano la loro fugace comparsa nella storia europea, Hobbes aveva immaginato il suo meta-individuo con una testa pensante individuale: quella di un re-papa che detiene tutti i poteri.   La realtà attuale è molto diversa ed al posto della testa coronata si trova un gruppo di oligarchi che avendo gli “amici giusti nei posti giusti” controllano il grosso del flusso di energia che attraversa il corpo sociale.   Una struttura tipicamente coloniale e modulare che si ripete su scala diversa, ma in modo sorprendentemente simile, dal livello globale a quello di ogni piccolo comune.  

Per essere chiari: i rapporti che intercorrono fra i maggiori gruppi industriali e finanziari mondiali con i governi del “G20” generano delle dinamiche che ritroviamo su scala più piccola, ma strutturalmente uguale a livello di singoli stati, di regioni ecc.    Fino al piccolo comune il cui sindaco ha cura di mantenere rapporti costanti e privilegiati con coloro che detengono il grosso del potere economico in paese.

Probabilmente per questa sua struttura modulare, di fatto il Leviatano non sembra essere in grado di fare altro che seguire un istinto tanto antico quanto la materia stessa di cui è fatto: assorbire e dissipare più energia possibile.   E deve farlo subito, adesso; senza riguardo alcuno neppure per se stesso domani.   Una totale miopia che contrasta in modo stridente con l’ efficienza, la creatività e l’astuzia con cui persegue il suo scopo.   Una combinazione dagli esiti con ogni probabilità nefasti.
Come tutto ciò ha a che fare con la nostra vita quotidiana?    E’ semplice:   Come ogni struttura dissipativa, il Leviatano (cioè tutti noi insieme) ha bisogno di un flusso costante di “cibo” e di cosa si alimenta?   Di energia certo, ma non direttamente, bensì di energia trasformata in “RICCHEZZA”; un po’ come noi individualmente ci nutriamo di zuccheri, proteine, grassi, ecc., ma non direttamente così come sono, bensì dopo averli digeriti, assorbiti e trasformati tramite un’incredibilmente complesso sistema metabolico.  

In altre parole, la società globale assorbe energia sotto forma principalmente di idrocarburi fossili,minerali e di biomassa, la trasforma in ricchezza e come tale in parte la usa per il proprio metabolismo (cioè per far girare la mega-macchina economica globale), in parte la accumula sotto forma di patrimonio (proprietà e risparmi) o di informazione (arte, scienza, tecnologia, ecc.)
Per circa 300 anni il Leviatano ha potuto “mangiare” più di quanto dissipava sotto forma di metabolismo antropico, guerre, ecc.    Di conseguenza  è cresciuto in dimensioni e complessità: nato in Inghilterra ai primi del XVII° secolo (Ritengo che Bacone e Hobbes ne siano stati i padrini), nel giro di duecento anni ha occupato il mondo intero, annichilendo od assorbendo tutte le altre civiltà.   Ma conservava un fisico asciutto ed efficiente in forza del permanere di limiti sostanziali alla sua capacità di assorbire energia e degli alti consumi necessari per la sua crescita.

Poi ci sono stati i “fantastici 30”.   Trenta anni solamente, all'incirca fra il 1945 ed il 1975, in cui la “bonanza” petrolifera ha sovralimentato il Leviatano in misura senza precedenti.   In tutto il mondo vi è infatti stata una crescita demografica assolutamente spaventosa, ma in una parte relativamente piccola dell’umanità  si è inoltre verificato un accumulo molto consistente di “grasso”, perlopiù sotto forma di patrimonio.   In particolare, la leggendaria “middle class” occidentale è cresciuta in modo tale da diventare una sorta di “tessuto adiposo” del Leviatano.  

Non è stata l’unica parte del corpo sociale in cui si sia accumulata ricchezza, anzi!   La “upper class” ne ha accumulata ancor di più, ma la vera disfunzione metabolica è avvenuta più tardi, dagli anni ’80 in poi, aprendo una voragine senza precedenti storici fra soggetti sempre più ricchi e sempre più poveri.   Per essere chiari, né l’Europa feudale, né le nazioni industriali del XIX° secolo hanno mai raggiunto livelli di disparità economica neppure paragonabili a quelli attuali.    Per trovare situazioni analoghe bisognerebbe risalire al tardo Impero Romano od alla fasi finali dei ricorrenti imperi cinesi.

E la situazione continua a peggiorare in maniera progressivamente accelerata non solo in occidente, bensì in tutto il mondo.


Perché accade questo?   Se osserviamo come funziona una struttura dissipativa di tipo più semplice, ad esempio un singolo individuo umano, osserviamo che, aumentando l’input di energia, dapprima reagisce aumentando la propria massa muscolare e le proprie prestazioni fisiche; poi comincia ad ingrassare, ma non uniformemente in tutto il corpo: alcune parti accumulano più di altre.   Se dopo un poco cominciamo a ridurre le razioni, l’individuo dimagrisce, a cominciare dalle parti dove l’accumulo di grasso è stato maggiore  ed è meno importante sotto il profilo metabolico.   Ad esempio la “pancetta” viene riassorbita prima del grasso intramuscolare.   Se la dieta diventa carestia, una volta esaurite le riserve di grasso, il fisico comincia a riassorbire anche gli altri tessuti (muscoli, ecc.).   L’ultima parte ad essere alimentata è il cervello che, per rimanere funzionante, ha comunque bisogno di quantità consistenti di energia.   Se necessario, il resto del corpo viene sacrificato per mantenere in vita questo centro da cui, in buona parte, dipende il funzionamento di tutto il resto.   Eventualmente fino a morire.

Passando ad una struttura dissipativa infinitamente più complessa, come la civiltà capitalista globale, è ovvio che molte cose cambiano, ma i principi fisici fondamentali rimangono i medesimi ed in questa chiave diventa molto facile capire quello che sta succedendo.   Diminuendo la qualità, più che la quantità, dell’energia che il Leviatano può assorbire, il suo sistema fisiologico ha cominciato a digerire la ricchezza che aveva accumulato in passato, ma in maniera non uniforme.   Abbiamo detto all’inizio che il Leviatano attuale ha un sistema nervoso centrale costituito da una classe dirigente che detiene la maggior parte della ricchezza e del potere; un fenomeno questo che si ripete modularmente alle differenti scale di riferimento: pianeta, stati o meta-stati, regioni, comuni, ecc.   Un tipico caso di “invarianza in rapporto alla scala” che ci rassicura circa la natura fondamentalmente fisica del fenomeno.   Dunque la priorità assoluta del sistema è mantenere intatto l’afflusso di energia verso la vetta della piramide sociale, alle diverse scale.   Per fare questo, quando necessario, vengono quindi digeriti i livelli inferiori, ma non in misura uniforme, bensì in rapporto alla quantità di ricchezza che può esserne estratta ed in che forma, alla difficoltà di estrarla ed all’utilità che i diversi soggetti hanno nel mantenere in vita la struttura complessiva.

Rielaborando l’apologo di Menenio Agrippa, potremmo dire che operai e contadini corrispondono al tessuto muscolare;  possono quindi essere digeriti sotto forma di peggiori condizioni di lavoro e di licenziamenti, ma solo nella misura in cui questo non pregiudica l’assorbimento e la metabolizzazione dell’energia.   Al limite possono essere ridotti in schiavitù, ma non eliminati.   Altra categoria rilevante è quella rappresentata dagli specialisti nell’uso misurato della violenza: militari e polizia.   Qui sta succedendo qualcosa di interessante.   In gran parte del mondo i bilanci militari crescono di anno in anno, in alcuni casi in maniera spettacolare, segno evidente che le classi dirigenti attribuiscono a questo “organo”  una funzione importante sia per l’accaparramento di fonti di sostentamento per il sistema economico, sia per il controllo delle proprie classi lavoratrici.  

Viceversa,  in Europa i bilanci della difesa diminuiscono e sono oramai da tempo finalizzati più al sovvenzionamento dell’industria nazionale piuttosto che all’efficacia dello strumento.   Segno evidente della decisione strategica di rimettere questa funzione alla discrezione ed alla disponibilità degli USA: nipoti-pardoni del nostro continente.   Una strategia che se permette di dirigere su altri settori risorse importanti, ci pone collettivamente nella scomoda posizione di essere non solo un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro, ma anche un vaso pieno di grasso cui la crescente fame del ramo americano del Leviatano ha appena cominciato ad attingere.     Discorso analogo per i servizi di polizia deputati al controllo dell’ordine pubblico e simili incombenze, mentre non si lesinano finanziamenti a quei servizi il cui scopo è il reperimento di risorse per alimentare le parti più vitali del sistema; in particolare i principali gruppi finanziari e la macchina politico-amministrativa che controlla gli stati.

E questo ci riporta alla leggendaria classe media, vera trionfatrice nei decenni di “pasciona” ed oggi principale tessuto di riserva cui attingere.   Non è difficile capire perché:   a) se individualmente la ricchezza accumulata di solito non è molta, collettivamente lo è, specialmente in Europa ed in USA.   b) Il radicato individualismo, la divisione in una miriade di sotto-classi spesso ostili fra loro e la totale impreparazione ad affrontare situazioni di effettivo pericolo rendono questa categoria più facile di altre da digerire.   c) Il sistema può fare tranquillamente a meno della maggior parte di queste persone (professionisti, professori, piccoli commercianti, artigiani, ecc.).   Sono “spendibili”.
Si tratta, evidentemente, di una schematizzazione estrema.   Il sistema è in realtà molto complesso e, come abbiamo accennato, articolato in una miriade di sotto-sistemi tipo “scatole cinesi” all’interno dei quali si riproducono le stesse dinamiche fondamentali.   Ma se qualcuno ha l’impressione di essere finito in un meccanismo che ne drena inesorabilmente la qualità della vita ed il patrimonio non pensi di essere paranoico: è esattamente quello che sta succedendo.   Riduzione degli stipendi ed aumento di imposte od affini sono solo due degli strumenti messi in atto dalla fisiologia famelica del Leviatano.   Un altro importantissimo settore in pieno sviluppo è, ad esempio, il profluvio di regolamenti e leggi che, con pretesti che variano dalla sicurezza alla tutela dell’ambiente, sono in realtà  finalizzati ad obbligare la gente a comprare cose che non desiderano e di cui non hanno bisogno.

Un altro sistema particolarmente perverso è quello delle pensioni, un argomento che esemplifica in modo molto efficace come l’effetto dei “Ritorni decrescenti” possa pervertire il funzionamento delle strutture portanti del sistema economico e sociale.   Mediamente, chi lavora oggi deve versare circa il 50% dei propri introiti non già per assicurare la propria vecchiaia, bensì quella di chi lo ha preceduto e che, avendo guadagnato meglio di lui, oggi usufruisce di una pensione che il lavoratore attuale non avrà mai.   In pratica, un sistema concepito per assicurare una decente vecchiaia agli anziani in un periodo in cui i giovani erano nettamente più numerosi e mediamente più ricchi dei vecchi, si è trasformato in un sistema tramite il quale i pensionati stanno parassitando i giovani e gli adulti del loro stesso paese; della loro stessa famiglia.   Un paradosso ormai chiaro a tutti, ma che non sarà corretto perché i giovani sono politicamente meno importanti degli anziani e, dunque, più spendibili.
Si potrebbe riassumere tutto ciò con quattro immagini rappresentative delle diverse fasi nell'evoluzione del Leviatano:


XVII secolo, è l’immagine di copertina dell’omonimo trattato di Hobbes che ci mostra un organismo giovane e dinamico, in piena fase di sviluppo.

XIX – XX secolo, Il Leviatano è diventato una macchina da guerra invincibile, lanciato alla completa conquista del Pianeta, travolgendo non solo le altre civiltà, ma soprattutto appropriandosi di ogni possibile risorsa e devastando la struttura vitale degli ecosistemi terrestri e marini.

Fine del XX secolo, il Leviatano è ancora una macchina da guerra terribile, ma è decisamente obeso, malgrado alcune sue parti siano scheletriche.   Inoltre, comincia a subire seriamente le conseguenze delle conquiste precedenti sotto forma di inquinamento, diffusione di parassiti e patogeni resistenti, ecc.   La sua forza è ancora tremenda, ma la sua salute vacilla.

XXI secolo.   Ridotto alla fame dalla decadenza quali-quantitativa delle risorse e dall’ipertrofia del suo enorme corpo, divora i suoi stessi componenti per sopravvivere.   Ma differenza di Kronos con i suoi figli, non li rigenera e dunque è destinato ad esaurirli in modo non dissimile da come sta esaurendo tutte le altre risorse.    Un fatto questo che a priori condanna il Leviatano ad una morte lenta ed atroce, ma non l’umanità con lui.   La sua esistenza cesserà man mano che la struttura socio-ecomonico che ne assembla le varie parti ed i singoli individui verrà meno.    Alla fine di questo processo certamente il numero di umani sarà molto inferiore all’attuale, ma comunque consistente: ci potrebbero essere i presupposti per costruire nuove civiltà.   In che modo la fame del Leviatano morente può pregiudicare questa possibilità?    Ce ne occuperemo nel prossimo post.