lunedì 5 maggio 2014

La crescita anti-economica

Da "Uneconomic growth in theory and in fact"  (traduzione d Jacopo Simonetta)

Prolusione di  Herman E. Daly. tenutasi al Trinity College, Dublino, 26/04/1999

     
   Ciò di cui voglio parlarvi oggi è un concetto che ritengo importante, anche se non se ne sente parlare molto.   Si tratta dell’idea della crescita anti-economica.   Sentiamo anche troppo parlare di crescita economica, ma la crescita anti-economica è possibile?   Io ritengo di si.

Questo pomeriggio, il testo per la mia presentazione è preso da John Ruskin: “Ciò che sembra essere ricchezza in verità potrebbe essere soltanto una dorata indicazione verso la sopravveniente rovina”.   Questo è il mio tema e voglio svilupparlo nel modo seguente:  Prima discuterò la crescita anti-economica in teoria.    Ha teoricamente senso?   Si può ricavare dalla teoria economica corrente?   Io ritengo che ciò è molto coerente con la teoria micro-economica, ma che confligge con la teoria macro-economica così come viene correntemente considerata.

In seguito discuterò quello che potrei definire “il problema del paradigma”, anche se utilizzerò un termine economico.    Josef Schumpeter, un grande economista della prima parte di questo secolo (XX° secolo ndt) parlava di una visione pre-analitica.   Ogni volta che ci impegniamo nell'analisi di qualcosa non partiamo dal nulla  – partiamo da una qualche percezione della natura dell’oggetto che andiamo ad analizzare.   Questa visione pre-analitica determina in gran parte quelle che saranno le nostre conclusioni.    Questo non è un atto di analisi, non potete arrivare ad una visione pre-analitica attraverso un’analisi.
Quindi, se vi avrò convinti della possibilità che la crescita anti-economica abbia forse un senso in teoria, esiste la crescita anti-economica nei fatti?   Magari è solo una scatola teorica vuota, senza niente di reale dentro.   Voglio quindi presentare qualche prova che negli Stati Uniti ed in alcuni altri paesi la crescita aggregata ci sta di fatto costando più di quanto rende e, di conseguenza, erode il benessere.
Parlerò degli Stati Uniti e non dell’Irlanda per la semplice ragione che non so niente dell’Irlanda, malgrado i miei antenati vengano da qui.    Così io vi ringrazio per avermi spedito dagli antenati e per condividere i vostri geni con me:   Ma poiché nessuna informazione sull’Irlanda viene trasmessa geneticamente, ho qualcosa da imparare.
In terzo luogo, dal momento che ho ipotizzato che l’ideologia della crescita infinita non deriva veramente dalla teoria economica, perché dobbiamo enfatizzare la crescita economica per nascondere la crescita anti-economica?   Io suggerisco che questo abbia a che fare con fondamentali problemi associati con i nomi di Malthus,  Marx, Keynes e, più di recente, con la Banca Mondiale.
Se ne avrò il tempo, vorrei poi dire anche qualcosa sulla globalizzazione come il maggior ostacolo al riconoscimento dell’esistenza di una crescita anti-economica e particolarmente al fermarla od evitarla.   Infine ci sarà uno spazio per la discussione.

Permettetemi di cominciare con la domanda: può la crescita del PIL (è questo che di solito chiamiamo crescita economica, la crescita del PIL). Può la crescita del PIL diventare di fatto anti-economica?  

Bene, prima di rispondere, penso che sia bene porsi una domanda simile in micro-economia.   Può la crescita di attività micro-economiche (cioè quelle di imprese e famiglie), possono queste attività diventare anti-economiche?   Certo che si.   Lo scopo stesso della micro-economia è trovare il livello ottimale di ogni attività.   Man mano che un’attività cresce, ne crescono i costi marginali che possono incrociare i guadagni marginali che decrescono.   Se si cresce oltre questo punto, diviene anti-economico.   L’essenza della micro-economia è l’ottimizzazione e questo implica fermarsi.   Così la regola dei costi marginali uguali ai benefici marginali, che vi è familiare se avete fatto il primo corso di economia, è efficacemente chiamata in alcuni testi “la regola del quando fermarsi”.    Mi piace questo ter mine: “la regola del quando fermarsi”.
Bene, avete avuto il vostro corso di micro-economia.   Ora viene il corso di macro-economia.  Niente più equiparazione dei costi e dei benefici marginali, niente più regola del quando fermarsi.   Semplicemente aggregate tutto nel PIL che si suppone poter crescere per sempre.    Questa trovo che sia una cosa curiosa.  Alla base della teoria economica, nella micro-economia,  l’idea della crescita anti-economica è fondamentale e  nient’affatto controversa, ma quando si passa alla macro-economia semplicemente si aggrega tutto.   Oops!   Di colpo non c’è più la regola del quando fermarsi e neppure una qualsiasi domanda circa un livello ottimale di attività.   Così, permettetemi di ragionare un po’ sul perché accada questo e, per farlo, consentitemi di tornare all'idea della visione pre-analitica, o paradigma che ho menzionato.

Vorrei prima presentare la visione pre-analitica dell’”Economia Ecologica”.

Questo è condiviso da molti altri economisti anche se ci sono varie discussioni.   Ho chiamato questo la macro-visione della macro-economia.   La cosa importante in questa visione è che l’economia viene considerata un sottosistema di un più grande ecosistema.   E l’ecosistema è delimitato, non cresce ed è chiuso dal punto di vista della materia.   Vi è un flusso in entrata di energia solare nel sistema maggiore ed un flusso in uscita di calore.   Degradandosi, l’energia solare fa girare i cicli bio-geo-chimici che sostengono la vita; è tutta quella roba verde che fa muove ogni cosa.   L’economia è quindi vista come un sotto-sistema aperto.   E’ aperto sia nei confronti della materia che dell’energia.   Preleva materia/energia a bassa entropia dall'ecosistema dove scarica materia/energia ad alta entropia e vive di questo gradiente.   Vive degradando materia ed energia.  

Quindi cominciamo esaurendo e terminiamo inquinando.   Non c’è modo di evitare questo salvo smettere di mangiare ed eliminare i rifiuti.   E’ una parte naturale dell’economia.   E’ il suo apparato digerente e deve stare dov'è.  

La materia può essere riciclata.   Possiamo prendere qualcosa dalla spazzatura ed usarlo di nuovo.   Qualcuno potrebbe pensare: “Bene, allora ricicliamo anche l’energia”, ma i fisici ci dicono che invece non possiamo.   Più esattamente, ci dicono che possiamo, ma che per raccogliere l’energia scartata, riportarla indietro ed usala di nuovo ci vorrà sempre più energia di quanta se ne possa recuperare.   Il costo energetico del riciclo di energia è sempre maggiore della quantità di energia riciclata.   Quindi è una proposta perdente e gli economisti devono capirlo.   Non è questione di quanto costa l’energia, non sarà mai possibile riciclare l’energia perché c’è una costrizione fisica sotto cui dobbiamo vivere: la seconda legge della termodinamica o legge dell’entropia.  Un’altra cosa.   Tutto ciò che si trova all'interno del cerchio che rappresenta l’ecosistema è misurato in unità fisiche.   Ma non possiamo analizzare l’economia in unità fisiche perché, se lo facciamo, raggiungiamo la conclusione che il prodotto fisico finale dei processi economici sono energia e materia di scarto e non ha molto senso avere un’economia il cui prodotto finale sono i rifiuti.   E’ una sorta di macchina idiota, ma questo è il prodotto fisico finale.  

Così, se volete ridare senso all'economia, dovete evitare le dimensioni fisiche e procedere verso qualcosa che imponga valore o benessere, soddisfazione psicologica dei desideri.   Ho messo questo fuori del cerchio e lo ho chiamato “Benessere”  (soddisfazione dei desideri) ed ho indicato due fonti di servizi.   La prima è la linea di sopra , servizi economici, che rappresenta il soddisfacimento di desideri tramite quello che ho chiamato “capitale antropico;” la roba marrone dell’economia, i manufatti.   La linea di sotto rappresenta invece  i servizi ecosistemici (la soddisfazione dei nostri desideri da parte degli ecosistemi, la roba verde).   In quanto economisti, quello che ci preme è massimizzare il benessere totale, cioè massimizzare la somma dei due flussi di benessere.   Non vogliamo massimizzarne uno solo, vogliamo che la somma fra i due sia più grande possibile.

Ora, quello che accade con la crescita economica è che la dimensione fisica dell’economia cresce trasformando quello che era roba verde (capitale naturale) in roba marrone (capitale antropico).   Un albero viene tagliato e trasformato in un tavolo; un albero in meno nella foresta, un tavolo in più in casa vostra e così via.   Ma via via che l’economia cresce, c’è un’occupazione nei confronti del rimanente ecosistema che si traduce in costo dipendente dalla perdita di opportunità (con un albero si possono fare sia tavole che sedie od armadi, mentre un tavolo resta tavolo finché lo si butta via. ndt).

Man mano che si espande il flusso marrone si riduce quello verde.   E magari continueremo finché l’incremento del flusso marrone sarà superiore alla riduzione di quello verde in termini di utilità per noi.   Ma ad un certo punto, molto prima di occupare tutto lo spazio verde trasformandolo in roba marrone, arriveremo ad un optimum: un punto oltre il quale ogni ulteriore crescita diventa anti-economica in quanto riduce i servizi eco sistemici più di quanto non incrementi quelli economici.

A quel punto l‘economia avrà raggiunto la sua dimensione ottimale in rapporto  all'ecosistema.
Notate qui che sto considerando esclusivamente il benessere umano.   Ho scelto di proposito un approccio estremamente antropocentrico.   Solamente gli esseri umani vengono qui presi in considerazione per il benessere.   Se volessimo valutare anche il senziente di godimento della vita da parte delle altre specie come parte del benessere, avremmo una ragione in più per mantenere parte della roba verde che è l’habitat delle altre specie.   Questo riduce ulteriormente le possibilità di espansione dell’uomo, nella misura in cui nell'equazione contiamo la riduzione del godimento della vita da parte delle altre creature senzienti.

Kenneth Boulding una volta presentò un teorema molto profondo: disse che quando qualcosa cresce diviene più grande.   Io chiamo le schema in alto lo scenario “mondo vuoto” e quello in basso “mondo pieno”.   Questo è un poco ingannevole perché il mondo non è mai vuoto.   Prima era vuoto di noi e dei nostri oggetti mentre era pieno di altre cose.   Ora è pieno di noi con la nostra roba e relativamente vuoto di quello che c’era prima; così è leggermente ingannevole, ma voi capite quel che voglio dire.

Le due figure sono fondamentalmente le stesse: entrambe mostrano l’economia come un sotto-sistema di un più grande sistema che è delimitato, progressivo e chiuso dalla materia.   In entrambi i casi l’economia dipende per il suo mantenimento dall'ecosistema che la contiene.   Possiamo essere in disaccordo su quale dei due schemi rappresenti meglio il mondo in cui viviamo.   Io tendo a dire che lo rappresenta meglio il mondo pieno.   Qualcun altro potrebbe dire: “No, il mondo vuoto, abbiamo ancora un sacco di spazio”.   Siamo entrambi nella medesima visione analitica e possiamo argomentare pro e contro, e possiamo mostrarci l’un l’altro delle prove per convincerci.

C’è un altro tipo di dibattito.   Magari non è un dibattito perché comincia con una visione pre-analitica molto diversa.   Dice: “No, questo non è il modo giusto di guardare la realtà.   State osservando il problema sbagliato.   L’economia non è un sotto-sistema di un più grande ecosistema delimitato eccetera; è tutto il contrario.    L’economia è il sistema globale di cui l’ecosistema è un settore ed a causa di questo errore che lo avete disegnato in questo modo”.

Che cos’è l’ecosistema?   Beh sono le cave e le discariche; cose di questo tipo e noi possiamo riciclare questi materiali sempre più in fretta man mano che l’economia cresce.   In questa rappresentazione l’economia cresce nel vuoto.   In questa visione, la crescita non occupa spazi a nient’altro.   Non c’è perdita di opportunità, niente viene sacrificato all'espansione dell’economia così che chi potrebbe essere contro la crescita?   Non provoca scarsità di nessun tipo, non usurpa niente a nessuno, non richiede alcuna rinuncia.   In effetti, la crescita semplicemente allenta le scarsità fra le varie parti interne al sistema economico cosicché solo l’idea che ci possano essere dei problemi con la crescita è un totale nonsenso ed è così che funziona il mondo.

Ora io penso che sia molto difficile argomentare fra questi due paradigmi.   E’ come fra Tolomeo e Copernico.   Si possono presentare delle prove, ma fondamentalmente è questione di come volete guardare la cosa.   Ciò non significa che una visione sia migliore dell’altra, significa che è difficile dirimere la questione.

Nello sforzo di essere più equo possibile, permettetemi di qualificare l’interpretazione che sto dando.   La roba marrone in questa figura… Nell'altra ricordo che faccio una netta separazione fra unità fisiche ed unità di benessere – le unità fisiche sono dentro il cerchio ed il benessere fuori.  La roba marrone è totalmente fisica.   Questo per essere chiari con gli economisti che stanno pensando a questo marrone come al PIL piuttosto che come  a tonnellate o barili eccetera.   Così, pensando ad un valore piuttosto che una dimensione fisica, gli economisti non sono corretti a dire che pensano di poter far crescere all'infinito degli oggetti fisici.   Quello che stanno pensando davvero è che è il valore che può crescere per sempre.  Ma il valore, vorrei dire, anche se non è riducibile a dimensioni fisiche, non è comunque indipendente dalle dimensioni fisiche.   Deve necessariamente avere una dimensione fisica.   Per adesso la dico come un’asserzione.   Qui nel mondo fisico, il valore deve essere in qualche modo incorporato in un corpo fisico.   Si, la conoscenza ha un valore, ma entra in funzione nell'economia quando viene incorporata in energia/materia a bassa entropia e svolge qualche funzione utile.

Bene, questa è a parer mio la differenza di paradigma.   La mia risposta agli economisti che dicono: “Tutto quel che vogliamo è far crescere all'infinito il valore, non l’energia e la materia!”  è dire: “Bello.   In questo caso restringete e rallentate il flusso di materia ed energia, occupatevi di tecnologia e lasciate che il valore supportato da questo flusso prestabilito cresca per sempre ed io vi applaudirò.  Io sarò contento ed anche voi lo sarete”.   Questa sarebbe una soluzione facile per quelli che davvero possono far crescere e crescere per sempre il PIL con un flusso materiale fisso.   Io penso che ci sia spazio per il progresso in questa direzione, ma penso anche che ci siano dei limiti. 

Riguardo alla questione della crescita anti-economica in teoria, cominciamo con una visione pre-analitica.   Facciamo un primo passo nell'analisi di questa visione.   La curva continua rappresenta il benessere o il vantaggio marginale o il beneficio della crescita.   Q sull'asse orizzontale rappresenta il PIL.  Come usciamo dall'asse orizzontale abbiamo una riduzione del margine utile.   I penso che questa sia una legge dell’economia, fondamentale e ben stabilita (legge dei “rendimenti - o ritorni -  decrescenti”, ndt).
La curva tratteggiata qui sotto è il costo della crescita del PIL – in altre parole, i sacrifici sociali ed ambientali resi necessari dal fatto che la crescita occupa spazio all’ecosistema.   Ho chiamato questa “visione jevoniana” in onore a William Stanley Jevons, un grande economista intorno al 1870, che usava questo tipo di diagrammi per altro tipo di problemi, ma la logica è assolutamente la stessa.   In questo diagramma cos’è la crescita anti-economica?   Beh, la crescita economica è fino al punto B sull’asse orizzontale.   In corrispondenza di B il segmento AB è uguale a quello BC:   Il vantaggio marginale è uguale all’aumento dei costi.   Crescere oltre il punto B è anti-economico.   Poiché la distanza fra l’asse orizzontale e la linea tratteggiata è maggiore della distanza fra l’asse e la linea continua, la crescita vi rende più poveri anziché più ricchi.   E così abbiamo la definizione di crescita anti-economica: la crescita oltre il punto “B”.

Ho distinto diversi limiti alla crescita.   Uno è il punto B, il limite economico in cui il vantaggio marginale equivale al costo marginale.   Un altro è il punto E dove l’utilità marginale arriva a zero.   Ho chiamato questo il limite della futilità perché quando siete qui avete così tanti beni da godere che non avete tempo di godervene nemmeno uno.   Conseguentemente, aggiungerne ancora non vi da niente perché già non potete usare tutta la roba che avete.   E’ comunque futile, indipendentemente da quanto poco costa.   Il terzo punto è D dove la curva tratteggiata gira in picchiata verso l’infinito.   Chiamo questo il limite della catastrofe, il limite della catastrofe ecologica.    C’è un grazioso scenario dove voi inventate un qualche meraviglioso nuovo prodotto che ha un imprevedibile effetto collaterale che distrugge la capacità delle piante di fotosintetizzare ed improvvisamente zap!   Beh, la cosa piacevole del limite economico è che è il primo che incontriamo.

Gli altri due limiti non necessariamente devono apparire nell'ordine in cui li ho mostrati.   Il limite catastrofico potrebbe arrivare prima del limite della futilità.    Comunque, i penso che il limite economico arrivi prima, anche se nello scenario peggiore potrebbe coincidere con quello catastrofico.
Mi pare che sarebbe molto carino se nella nostra contabilità nazionale avessimo due serie di dati invece di una.   Se ho un set di dati che misurano i benefici (la linea continua) ed un’altra che misura i costi (la linea tratteggiata) e potessimo sommarli in modo da accorpare costi e benefici, potremmo confrontarli nello sforzo di cercare un livello ottimale di attività piuttosto che semplicemente presumere che l’attività economica debba crescere per sempre.

OK, penso che questo sia tutto quello che vi dirò sulla teoria.   Per quanto riguarda la realtà, ci sono degli indizi che qualche paese sia forse oltre il punto B, in una zona di crescita anti-economica?   Vi offro due elementi di prova.
Uno.   Ci sono due importanti economisti americani, William Nordhaus and James Tobin.  Tobin ha vinto il premio Nobel per un altro lavoro.   Circa trenta anni fa si posero la domanda: “La crescita è obsoleta?”   Penso che con obsoleto intendessero anti-economico.   Per rispondere a questa domanda dissero: “Tutti noi sappiamo che il PIL non è mai stato una misura di benessere.   E’ una misura di attività.   Giusto, quindi cerchiamo di testarla.   Costruiamo un indice che misuri il benessere o quello che pensiamo sia una misura del benessere e quindi correliamolo con il PIL “   Chiamarono il loro indice “Benessere Economico Misurato”, MEW, e scoprirono che, certo, c’era una correlazione.  

Nell'insieme del periodo 1929-1965 per ogni incremento di 6 unità di PIL c’era in media un aumento di 4 unità di MEW.   Non uno ad uno, ma 6 a 4.   Non male.   Un sospiro di sollievo.   La conclusione che raggiunsero fu che, anche se il PIL non era mai stato inteso come misura di benessere, comunque era sufficientemente ben correlato con il benessere da poter continuare ad essere usato considerando che sia una ragionevole misura del benessere. 

Bene, circa 20 anni dopo John Cobb, Clifford Cobb ed io decidemmo di dare un’altra occhiata a questa faccenda.   Stavamo sviluppando il nostro indice di benessere economico sostenibile e pensammo che il lavoro di Tobin e Nordhaus fosse la migliore base che potessimo trovare.   Spezzammo la loro serie temporale in due segmenti e scoprimmo che nel secondo periodo, i 18 anni fra il 1947 ed il 1965, la correlazione non era 6:4, bensì l’incremento di 6 unità di PIL davano un incremento di una sola unità del loro indice di benessere economico.   Così, come minimo, sembrava che l’aumento del PIL diventasse un modo sempre meno efficiente di incrementare il benessere sulla base dei loro stessi dati, delle loro stesse definizioni eccetera.   Avremmo voluto estendere il loro lavoro e vedere cosa succedeva dopo il 1965, ma non potemmo perché la serie statistica era cambiata.

Il loro indice non ci piace comunque perché non prevede nessuna correzione per i cambiamenti nella distribuzione dei redditi, per il depauperamento del capitale naturale ecc.   Così sviluppammo un altro indice che chiamammo “Indice di Benessere Economico Sostenibile” (ISEW).   E facemmo la stessa cosa che avevano fatto Nordhaus e Tobin.   Correlammo il nostro indice con il PIL e c’era una correlazione positiva all'incirca fino alla seconda metà degli anni settanta, quindi il nostro indice stagnava mentre il PIL continuava a crescere.   Addirittura il nostro indice declinava lievemente, mentre il PIL cresceva.

Non facemmo grandi cambiamenti rispetto al MEW.   Giusto applicammo una sottrazione per il depauperamento  del capitale naturale ed introducemmo una correzione relativa alla ripartizione dei redditi perché pensammo che fosse contrario alla teoria economica valutare un dollaro in più di reddito per una persona molto ricca alla stessa stregua di un dollaro in più per un povero.   Non applicammo nessuna deduzione per la riduzione del vantaggio marginale del reddito complessivo delle nazioni che diventano più ricche.   Neppure deducemmo qualcosa per il consumo di beni pericolosi come tabacco, alcol, eccetera.   Quindi giocammo in modo molto conservatore e, ciò nondimeno, trovammo che il benessere misurato da questo numero negli USA diminuiva, mentre il PIL cresceva.

Ora, sappiamo che misurare il benessere è un affare molto difficile ed insidioso.   Non voglio dire che la nostra misura è una grande misura del benessere, ma dimostra il fatto che quando progettarono il PIL non tentarono nemmeno di misurare  il benessere.   Noi ci abbiamo provato e probabilmente abbiamo trovato una misura un poco migliore del PIL.   E la correlazione fra i due è molto scarsa.

Ok, questo è solo un assaggino di crescita anti-economica.   Io penso che la crescita degli Stati Uniti, la crescita aggregata, sia anti-economica perché i costi aumentano più rapidamente di quanto facciano i benefici.   Con questo voglio dire che non c’è modo di migliorare il benessere degli Stati Uniti?   No, certamente no.    Ci sono un sacco di cose che devono crescere ed altre che devono declinare.   Il problema è l’aggregazione del PIL.   Se volete parlare delle cose che devono crescere dovete lasciar perdere gli aggregati ed occuparvi delle parti.   Dovete allontanarvi dalla macroeconomia, occuparvi di microeconomia ed identificare quegli elementi per i quali i benefici marginali sono ancora maggiori dei costi marginali.   Questo vi allontanerà dalla grossolana politica di stimolare genericamente la crescita economica aggregata che rappresenta il problema maggiore.


Ora permettetemi di occuparmi di qualche ragione di storia politica per controllare la crescita.   Ho detto che la spinta per la crescita in effetti non deriva dalla teoria economica standard che dice che esiste qualcosa come un optimum dove vi dovete fermare.   In macroeconomia invece non lo facciamo, andiamo avanti a crescere.   Da dove viene questo mandato?   Voglio suggerire diverse origini.    Penso che scaturisca dai problemi politici pratici di cui si occupano gli economisti.   Per esempio, il problema pratico della sovrappopolazione associato con il nome di Malthus.   La cura standard per la sovrappopolazione nel modo di oggi è la transizione demografica.   Se semplicemente andiamo avanti con la crescita economica, arriveremo ad un punto oltre il quale le persone cominceranno ad essere sempre più ricche e cominceranno ad avere automobili e frigoriferi invece di bambini.   L’economia cresce, la popolazione tende a diminuire e la transizione demografica avviene automaticamente.   Quindi se siete preoccupati per la popolazione, si è legittimo esserlo, ma non vi preoccupate, semplicemente dedicate ogni vostro sforzo alla crescita economica ed il problema demografico si risolverà da solo.

Ora consideriamo un altro grosso problema, l’iniqua distribuzione dei redditi fra classi sociali, largamente associata con il nome di Karl Marx fra i molti altri.   Quale è la soluzione?   Ridistribuire?

Oh no, questo causerebbe dei problemi.   Cresceremo in modo che l’iniqua distribuzione fra classi divenga perlomeno tollerabile.   Voglio dire che anche se il ricco arricchisce più rapidamente del povero, il povero non può protestare perché anche lui si sta arricchendo.   Quindi il modo per far stare tutti meglio è la crescita aggregata.   “La marea montante alza tutte le barche” si dice, ma naturalmente non è vero dal momento che una marea che sale in una parte del mondo significa una marea calante altrove, ma forse per una parte del mondo può essere vero.

Che dire della disoccupazione involontaria, il grande problema riconosciuto da John Maynard Keynes e, naturalmente, molti altri.   La cura è stimolare la crescita aggregata..   E come stimolare la crescita aggregata?   Beh, ci sono molti modi, ma il principale è l’investimento.   Devi stimolare gli investimenti e la crescita e questo curerà la disoccupazione.

Dobbiamo crescere oltre il livello ottimale per perseguire il pieno impiego?  Pare che questa sia un’importante domanda che non viene posta.  

Continuando in quest’epoca l’onorata tradizione di Malthus, Marx, e Keynes, durante il 1992 apparve il Rapporto della Banca Mondiale sullo Sviluppo Economico che quell'anno era dedicato allo sviluppo ed all'ambiente.  “Si”, diceva, “c’è un problema di degrado ambientale, ma hey, guarda!   Basta mantenere la crescita.   Crescendo abbastanza, magari diventiamo abbastanza ricchi da pagare i costi di ripulire e migliorare l’ambiente.”   Così, nella onorata tradizione, hanno trovato qualcosa che hanno battezzato “Curva ambientale di Kuznets” da Simon Kuznets che fu un grande statistico ed economista.   L’idea è una curva a forma di U rovesciata.   Man mano che la crescita economica prosegue lungo l’asse orizzontale, nel caso di Kuznets, la disuguaglianza cresce fino ad un massimo e poi diminuisce fino ad un qualche punto.   Bene, hanno adattato questo dicendo che l’asse orizzontale mostra la crescita del PIL.   Poi hanno preso un certo numero di misure di cose diverse, accuratamente scelte e, sicuramente, hanno trovato che alcuni tipi di inquinamento crescevano con il PIL fino ad un massimo per poi declinare.   Hurrà!   La cura per un problema ambientale è semplicemente persistere nella crescita anti-economica.    Una volta superato il picco la curva ridiscende e si entra in un campo di soluzioni sempre vincenti, tutto va contemporaneamente meglio eccetera.

Allora, quale è il punto dove voglio arrivare?   Il punto è che tutti questi problemi hanno la stessa soluzione: più crescita economica presupponendo che la crescita sia effettivamente economica in ogni caso, che questa crescita ci stia davvero rendendo più ricchi anziché più poveri.   Ma se entriamo in un’era di crescita anti-economica, la crescita ci renderà più poveri.   Questo non sosterrà la transizione demografica per curare la sovrappopolazione, non aiuterà a riparare l’ingiusta distribuzione e neppure a ripulire l’ambiente.

Quindi abbiamo bisogno di soluzioni più radicali ai problemi di Malthus, Marx e Keynes .   Controllo della popolazione per contrastare la sovrappopolazione.   Ridistribuzione per contrastare le ineguaglianze eccessive.   Per la disoccupazione non sono sicuro di conoscere la risposta: forse il settore pubblico come datore di lavoro di ultima istanza, una riforma ecologica della tassazione, alzare il prezzo delle risorse, condivisione del lavoro, soluzioni diverse.

Questa per me è una conclusione su cui riflettere.   Mi pare che la ragione per cui abbiamo enfatizzato politicamente la crescita, ponendola al primo posto, è che senza essere radicale dovrebbe risolvere tutti questi devastanti problemi: sovrappopolazione, disoccupazione, iniqua distribuzione, ecc.   Offre una soluzione sempre vantaggiosa a tutti questi problemi che ci schiacciano le ossa.   Togliete la crescita e dovrete trovare delle soluzioni davvero radicali, cosicché i politici non vogliono farlo ed il pubblico non è pronto per sopportarlo.   Ma se la crescita attuale è davvero anti-economica, allora dobbiamo fronteggiare soluzioni di tipo veramente radicale ai problemi fondamentali.   Niente di più tentante di pensare: “Beh, di sicuro la crescita deve essere economica.”   E tirare avanti.
In chiusura, lasciatemi puntualizzare che ritengo che il tipo di politiche radicali cui ho fatto cenno senza definirle veramente (politiche per contrastare la sovrappopolazione, l’ingiusta distribuzione ed il degrado ambientale) devono essere portate avanti dagli stati nazionali a livello nazionale.   Questo è l’ambito comunitario nel mondo di oggi; questo è l’ambito in cui le autorità attuano la politica.   So che le cose stanno cambiando, che si stanno spostando, ma è quello che esiste adesso e se avremo globalizzazione temo che questo ridurrà la capacità delle nazioni e delle comunità di sviluppare il tipo di politiche molto radicali di cui abbiamo bisogno per fronteggiare queste difficoltà.

Concludendo, giusto per chiarezza, vorrei distinguere l’internazionalizzazione dalla globalizzazione.   Per me l’internazionalizzazione si riferisce alla crescente importanza del mercato internazionale, dei trattati, delle alleanze eccetera.   Internazionale, naturalmente , significa fra nazioni.   L’unità di base rimane la nazione, anche se le relazioni fra nazioni diventano sempre più importanti, cruciali e necessarie.   Questa è l’internazionalizzazione. 

Globalizzazione si riferisce invece all’integrazione economica di molte economie precedentemente separate.   La globalizzazione, perlopiù tramite il libero commercio e la libera mobilità dei capitali, ma anche in misura minore favorendo le migrazioni, è un’effettiva erosione delle frontiere economiche nazionali.    Quello che prima era internazionale adesso diventa inter-regionale, quello che era governato dal vantaggio relativo e dal reciproco guadagno adesso diviene governato dal vantaggio assoluto senza alcuna garanzia di reciproco guadagno.   Ciò che era molti diventa uno.   La stessa parola integrazione deriva da “integer”, sicuro, ed integer significa uno, completo ed unico.   L’integrazione è l’atto di amalgamare in un tutto unico. E Siccome c’è un solo tutto unico, una sola unità di riferimento in cui le parti sono integrate, ne consegue logicamente che l’integrazione economica globale implica la disintegrazione delle economie nazionali.    

Con disintegrazione non intendo che scompaiono le unità produttive, solo che sono estratte dal contesto nazionale e riarrangiate su base internazionale.   Come dice il proverbio: “Per fare una frittata bisogna rompere le uova”.   Per integrare la frittata globale bisogna rompere un po’ di uova nazionali.   Mentre suona simpatico parlare di “comunità mondiale”, dobbiamo confrontarci con i costi a livello nazionale dove le istituzioni e le comunità esistono veramente.   Disintegrare le comunità dove esistono, al livello nazionale, nel nome di un ideale e speranzosa nozione di comunità attenuata dove questa ancora non esiste, a me sembra molto problematico (l’autore è statunitense e ritengo che per livello nazionale si riferisca quindi ad un livello federale analogo a quello degli USA, non a quello dei suoi singoli stati della federazione ndt.).   

Globalizzando, togliamo agli stati la capacità di imporre ed attuare le politiche necessarie per internalizzare i costi esterni, controllare la popolazione, fare le cose necessarie.   Entriamo in un regime di competizione al ribasso in cui le compagnie transnazionali possono giocare un governo contro un altro allo scopo di ottenere la minore intenalizzazione possibile dei costi sociali ed ambientali delle loro produzioni.   In questo processo, secondo me, i principali sconfitti saranno le classi lavoratrici dei paesi che, per qualsiasi ragione, avevano fatto in modo di mantenere alti salari, bassa crescita demografica, alti standard di internalizzazione dei costi ambientali.   Tutti questi standard saranno schiacciati a livello della media mondiale che sarà relativamente bassa.   Perciò io vedo la globalizzazione come l’ostacolo maggiore all'attuazione del tipo di politiche radicali che sono necessarie per evitare la spirale decrescente della crescita anti-economica.

In effetti, a me sembra che la globalizzazione sia solo un modo per ridimensionare la capacità delle nazioni di contrastare i propri problemi di sovrappopolazione, iniqua distribuzione, disoccupazione e costi esterni.   Tende a convertire molti problemi difficili, ma relativamente trattabili, in un grande ed intrattabile problema globale.   Per questa ragione penso che dovremmo essere molto accorti a celebrare e promuovere la globalizzazione ed invece tornare al modello dell’internazionalizzazione.  

Questo non significa rinunciare ad una comunità economica globale, una comunità mondiale: è un differente modello di comunità.   Significa che il mondo può essere una comunità di comunità, di nazioni federate in una comunità, piuttosto che membri diretti di una comunità in cui non c’è intermediazione da parte delle nazione che fondamentalmente spariscono.   
Bene, dopo questa provocazione io penso che forse sia meglio fermarmi.