giovedì 18 aprile 2013

L'era delle conseguenze



Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR


“L’era dei rinvii, delle mezze misure, degli espedienti ingannevolmente consolatori, dei ritardi è da considerarsi chiusa. Ora ha inizio l’era delle (azioni che producono) conseguenze.” . Winston Churchill.

Di Antonio Turiel

Cari lettori,

nella conferenza/dibattito di venerdì scorso, nella quale ho avuto l'onore di condividere il podio con Ferran Puig (autore dello straordinario blog sul cambiamento climatico “Usted no se lo cree”), questi ha citato la frase di Winston Churchill che oggi da il titolo al post. Churchill pensava, naturalmente, alle conseguenze che avrebbe avuto il non aver saputo o voluto contenere le velleità espansioniste della Germania nazista e Ferran la portava a paragone delle conseguenze che porterà all'Umanità intera non aver saputo o voluto far fronte al problema del Mutamento Climatico – ed è curioso vedere come l'aforisma si adatti tanto bene a questa situazione. In realtà la frase di Churchill riflette un aspetto di reazione profondo della psiche collettiva umana quando deve far fronte a sfide comuni che implicano certe rinunce, certe incapacità di tornare allo stato precedente, certe necessità di reagire e sforzarsi. E, come vediamo, tale molla psicologica è abbastanza senza tempo.

Ferran è riuscito anche a sintetizzare con grande tatto le sue preoccupazioni e le mie, con un diagramma sul funzionamento dell'economia. Nello schema classico, il pezzo centrale, il mercato, è l'unico rilevante. In uno schema più realistico e integrato, nel lato sinistro le risorse essenziali per lo sviluppo economico (energia e materiali) entrano nel mercato, mentre nel lato destro si tiene conto dei sottoprodotti dello stesso, sotto forma di inquinamento. E così, la mia preoccupazione sono le entrate nel sistema, mentre quelle di Ferran sono le uscite. Entrambe implicano l'impossibilità di mantenere un sistema che fondamentalmente si basa sul fatto che le entrate potranno aumentare all'infinito se così serve, mentre le uscite non generano nessun effetto nocivo significativo. Il trionfo di questa visione, con la quale il mercato occupa tutto il modello economico ed anche il trascendente, essendo considerato applicabile anche alle relazioni umane, è ciò ha portato ciò che è chiamato neoliberismo, noe-conservatorismo (neo-con) e ultimamente (visto che i termini sono assai obsoleti) anarco-capitalismo o teoria austriaca. Tale visione è, naturalmente, completamente ideologica. Parte da una visione del mondo che ha poco o nulla a che fare con la realtà e quando le si presentano elementi che confutano i suoi postulati si cercano spiegazioni contorte (dal tipo di modello logico-deduttivo impiegato, oltre il metodo scientifico che si pretende di superare, fino ad argomenti costruiti ad hoc per non accettare ed evadere dalla realtà). Ciononostante, l'evidenza che ci circonda è talmente clamorosa che sembra incredibile che si neghi ancora.

Una di queste evidenze alle quali è difficile sfuggire, è quella del cambiamento climatico. Il tema è stato trattato diverse volte da questo blog e la sua semplice evocazione è solita provocare l'infuocata reazione immediata di alcuni campioni del libero mercato che qui hanno il loro immaginario. Siccome per di più io non sono un esperto del tema, non mi inoltro ulteriormente dentro di esso. Semplicemente metto qui un grafico che Ferran ha messo su Facebook l'altro giorno per una vostra riflessione: è l'evoluzione del ghiaccio minimo di ogni anno nell'Artico.




Notate che dico volume, non superficie: la superficie diminuisce progressivamente, ma il volume lo sta facendo più rapidamente perché il ghiaccio è sempre più sottile e più giovane. Non c'erano molte sttime fino a poco tempo fa, il grafico è stato elaborato da Andy Lee Robison a partire dai dati di un un articolo di prossima pubblicazione nella prestigiosa rivista Geophysical Research Letters, usando fra le altre fonti dati del satellite Cryosat. La riduzione è di circa l'80% dal 1979. Ora provate a stimare quando arriverà a zero...

Il cambiamento climatico è l'effetto di una esternalità non tenuta in considerazione e in preventivo, in questo caso l'emissione di biossido di carbonio. Ma il biossido di carbonio è invisibile, inodoro e per lo più chimicamente sufficientemente inerte (a parte quando si combina con l'acqua, la quale viene acidificata) e in particolare non è tossico, per cui è difficile associare causa ed effetto. In altri casi l'esternalità residuale è ben visibile e tangibile, ma anche così si verifica su scala massiva in un buco, dove portano la nostra spazzatura tossica e dove nessuno guarda che popoli interi ne soffrono le conseguenze. E' il caso, per esempio (e ce ne sono diversi altri), della Somalia. Sulle coste somale la mafia italiana sta sversando tonnellate di rifiuti tossici e radioattivi che arrivano da tutte le parti del mondo, senza controllo e senza coscienza, causando gravi problemi ambientali, mettendo fine alla pesca locale ed intossicando la popolazione. Se avete stomaco vi raccomando il seguente documentario: Toxic Somalia.

I problemi ambientali sono gravi non solo nei paesi del Terzo Mondo che il mondo industrializzato usa sconsideratamente come discariche dei propri sottoprodotti, approfittando del lassismo o dell'inesistenza di regole che renderebbero impossibile tali cose da altre parti. Sono molto gravi anche in altre nazioni ed in particolare in una che ora tutto il mondo ammira come esempio di prosperità e buon fare: la Cina. Abbiamo da poco saputo dei "paesi del cancro" in Cina, problema che sta già raggiungendo una dimensione tale che i poteri politici dovranno prendere delle misure, anche in un paese tanto chiuso e controllato come quello. La Cina ha basato il suo benessere economico su un modello di sviluppo industriale accelerato che fornisce servizi a tutto il mondo ad un costo più basso, ma questo comporta sempre conseguenze (come sono state portate in India negli anni 70 e 80 del secolo passato: ricordate il disastro di Bhopal).

Ed uno dei maggiori drammi della Cina viene dallo sfruttamento delle cosiddette terre rare: metalli fondamentali per le nuove ed avanzate tecnologie che, nonostante il loro nome, sono relativamente frequenti sulla crosta terrestre, ma appaiono sempre in concentrazioni molto basse e si possono sfruttare economicamente soltanto se si presentano associate ad altri metalli più comuni in concentrazioni di interesse economico e, inoltre, si usano tecniche di lavorazione poco rispettose dell'ambiente, tecniche naturalmente proibite in occidente. Questo fa sì che, nonostante siano passati quasi tre anni da quando ho scritto “La guerra delle terre rare”, La Cina oggi continua, controllando il 97% della produzione mondiale di terre rare (le peculiarità dell'economia delle terre rare è qualcosa che sfugge al radar dei campioni del libero mercato e sono convinto che qualcuno farà un commento sul particolare, nonostante la clamorosa evidenza – tre anni dopo – del fatto che non sono sfruttabili in occidente. Rimando il lettore interessato al post di tre anni fa).

E' inoltre curioso verificare come, nonostante i ripetuti annunci del fatto che la produzione di neodimio al di fuori della Cina sarebbe sostanzialmente aumentata – e vedete che lo discutiamo nei commenti al post “Il documento sul neodimio nella generazione eolica“ -, il fatto è che la Cina continua ad essere il principale fornitore mondiale. Ma una cosa simile non si ottiene in cambio di niente: l'inquinamento all'interno della Cina è mostruoso. Non solo questo: il nostro modello di sviluppo rinnovabile si basa in parte su questo grande inquinamento (più che lo sviluppo rinnovabile, che ne fa un uso solo in termini di maggiore efficienza, le terre rare sono in gran parte utilizzate per l'elettronica di consumo: televisori lcd e plasma, iPhone, ecc, tutte cose non proprio necessarie... ndt), come denuncia – forse in modo interessato – il Daily Mail. Un semplice sguardo alla zona nord di Baoutou con Google maps ci mostra i segni visibili della devastazione dallo spazio: la miniera di ferro, gli stagni di percolato per recuperare le terre rare... Risulta scioccante che allora si parlasse di ultra protezionismo cinese nel limitare le esportazioni di terre rare raffinate, tenendo conto dell'enorme costo ambientale che stanno pagando e che probabilmente non potranno continuare ad assumersi in eterno. E se alla fine non si crea un conflitto generalizzato per le terre rare è perché un occidente malaticcio ha minore appetito di questi materiali, visto che gli manca ciò di cui ha veramente bisogno, che è il petrolio a basso prezzo. Quello che mi pare curioso è che alcuni perdano tempo in misurate riflessioni sui modelli di integrazione di un tipo di energia generata (elettricità) che non si può facilmente assimilare alla nostra società senza capire che quello che la carta supporta non sempre si trasporta e che tentare semplicemente di mettere cerotti a quello che c'è è in realtà allungare inutilmente l'agonia del BAU.

Come vedete, quindi, le conseguenze vengono non solo dal tentare di mantenere un sistema insostenibile basato su un gran consumo di combustibili fossili ed altri materiali, ma anche con un altro sistema basato sulle energie rinnovabili ma che usa sistemi di captazione concepiti nella grandiosità industriale attuale e che pertanto consumano a loro volta una grande quantità di combustibili fossili ed altri materiali (fino al punto che si pone la questione se siano in realtà mere estensioni dei combustibili fossili). Ma ancora adesso, i nostri gestori e pianificatori sembrano ignorare il principio di Merton delle conseguenze inaspettate e non tiene presente – a volte nemmeno conoscono – le esternalità del nostro sistema produttivo attuale e nemmeno quelle del sistema che proponiamo come alternativa.

La questione delle esternalità, delle conseguenze di un modello di sviluppo che non tiene conto dei rifiuti che si lascia dietro, è abbastanza poco apprezzata dalla teoria economica dominante oggi. Peggio ancora, l'atteggiamento generalizzato verso queste questioni è di disprezzo, come se coloro che portano l'argomento che non si potrà sfuggire eternamente dalle conseguenze fossero idealisti infantili e qualcosa di peggio: cospiratori contro il benessere comune o contro il capitale. Così, è diventata moneta comune, fra certi economisti di prestigio mediatico, quella di attaccare la scienza del cambiamento climatico, nonostante la loro ignoranza della stessa. In un lancio di dadi in più, alcuni usano epiteti squalificanti per gli scienziati e i gruppi di divulgazione che lavorano sul tema, come allarmisti o 'riscaldologi' ed altre qualifiche. Questa strategia di dare etichette facili serve al fine di screditare senza necessità di discutere; è il vecchio errore di appello al ridicolo. Un'altra strategia di ridicolizzazione mediatica del problema consiste nel prendere la parte per il tutto (i problemi di una persona concreta si estendono a tutta la comunità, compreso chi non vi appartiene). A volte si esagera anche l'importanza degli errori (come nella trascrizione del rapporto del IPCC della data stimate della fusione dei ghiacciai dell'Himalaya – dove si è scritto 2050 anziché 2500 e a partire da questo piccolo errore di battitura sono state ridicolizzate le migliaia di pagine del rapporto).

Siccome non tutto si può risolvere nell'attaccare, i gruppi negazionisti del cambiamento climatico devono fare le proprie previsioni e così ripetono certi errori che in seguito abbandonano, quando diventa evidente che non sono certi, cambiando sempre il contenuto ma mai l'atteggiamento. Per esempio, ricordo che fino a cinque anni fa dicevano che il mondo si era raffreddato durante l'ultimo decennio, senza tenere in considerazione che fenomeni ciclici come El Niño e La Niña modulano il segnale climatico e che la temperatura non sale ad un ritmo costante ma in modo complicato, sfalsato e che per vedere le tendenze bisogna osservare periodi lunghi. Di fatto nei cinque anni seguenti la temperatura è aumentata in modo accelerato ed ora quello che dicono è che non c'è stato riscaldamento negli ultimi 16 anni... Ricordo che qualche anno fa, per le stesse fluttuazioni, si insisteva sul fatto che la maggioranza dei ghiacciai del mondo avanzavano anziché retrocedere. Ora, perduta questa battaglia e con il ghiaccio artico in palese ed allarmante ritiro, il focus si centra sul ripetere che cresce il ghiaccio marino in Antartide, senza tenere conto degli studi recenti che mostrano che il volume del ghiaccio antartico a sua volta è in diminuzione – e probabilmente sta in parte cadendo in mare.

In ultima istanza, queste discussioni – che sicuramente torneranno ad emergere nel contesto di questo post – non cercano di convincere, ma di seminare il dubbio nell'opinione pubblica in modo che si paralizzi qualsiasi azione efficacie per frenare l'emissione di gas serra. Di fatto, ripetutamente si tenta di porre il dibattito in termini di accusa-difesa e non secondo il principio di precauzione. In questo modo, si ottiene che l'opinione pubblica interiorizzi che si deve dimostrare la colpevolezza dell'industria inquinante oltre ogni ragionevole dubbio, senza capire che in realtà siamo tutti questa industria inquinante e che non si tratta di giudicare, ma di evitare un male più grande. Come siamo arrivati a questo? Perché questa perseveranza nel mantenere un corso chiaramente dannoso per la nostra specie e la nostra continuità sul pianeta? Cos'è che c'è in gioco?

Siamo franchi. La verità è che tentare di adattare il mercato ai limiti reali del mondo implica diminuire la ricchezza. Non c'è la pallottola d'argento, solo diminuzione della ricchezza. Le energie rinnovabili, che gli entusiasti pongono come alternativa, non hanno la capacità economica dei combustibili fossili e probabilmente senza di essi non sono redditizie; dopo tanti decenni di prova di queste tecnologie, gli investitori sanno già cosa danno di per sé e per questo non scommettono su di esse, si ribellano anche contro coloro che le vogliono imporre argomentando i lor probabili benefici economici. Dobbiamo essere sinceri con noi stessi: non ci sono. Non è nei termini classici, nell'ottica del beneficio economico che dobbiamo fare i cambiamenti. Li dobbiamo fare perché la vita su questo pianeta non sarà possibile se non teniamo conto di queste esternalità. E accadranno, a prescindere da quello che faremo, che lo vogliamo o no, perché i combustibili fossili non possono già più seguire il nostro ritmo, perché questa crisi non finirà mai.

Una volta ho letto (anche se non riesco a recuperare la fonte) che qualche anno fa, forse cinque, c'è stata una riunione di esperti del Regno Unito per parlare delle misure necessarie per la mitigazione e l'adattamento al cambiamento climatico. C'era un dibattito infiammato fra scienziati ed attivisti, che dicevano che il Regno Unito dovrebbe ridurre le proprie emissioni di CO2 del 80% prima del 2050, ed i rappresentanti dell'industria, che dicevano che una cosa del genere presupporrebbe una perdita di competitività tanto grande per il Regno Unito che distruggerebbe la sua industria. E tutta la discussione si centrava su quale modello economico si dovrebbe mettere in moto per garantire la piena occupazione e la competitività, con un'adeguata frazione rinnovabile nel mix, combinata con risparmio ed efficienza. A un certo punto, hanno chiesto ad un rinomato ambientalista, un uomo già anziano ma forte di spirito, un uomo che si manteneva giovane andando ovunque in bicicletta e che fino a quel momento si era mantenuto ai margini della discussione: “A cosa somiglierebbe, secondo te, un Regno Unito che avesse diminuito le proprie emissioni di un 80%?”. Con sorpresa di molti, il rinomato ambientalista ha detto, imperterrito: “Il Regno Unito somiglierebbe ad un paese povero del Terzo Mondo”. Il fatto è che è questa la realtà, disgraziatamente. Se non cambiamo il modello economico, se non riformuliamo le relazioni produttive e di consumo, la nostra inevitabile discesa energetica ci porterà ad una povertà estrema ed alla crescita di enormi sacche di esclusione sociale.

Sta qui la vera ragione di questo accanimento contro la scienza del cambiamento climatico e il disprezzo verso le esternalità in generale, al di là delle prove scientifiche. I più convinti dal libero mercato si ribellano, anche in buona fede, contro qualcosa che pare loro un'insensatezza. E lo è veramente, dalla prospettiva di breve termine del paradigma economico attuale. E' per questo che non si convinceranno mai gli economisti con tali argomenti. Sono stati educati per un'economia senza limiti di risorse e senza conseguenze nell'ambiente, e tale educazione non serve più nella nuova era, l'era dei limiti, l'era delle conseguenze.

Saluti.
AMT.